di Roberta Pedrotti
Paolo Bordogna, Roberto De Candia e Michele Pertusi sono protagonisti di un concerto che dietro l'ironia disimpegnata del titolo La rivincita dei tre baritoni cela il paradiso perduto e ritrovato di un gusto serissimo e appassionato di divertirsi facendo musica e teatro, di condividere arte e passione.
PARMA, 26 giugno 2014 - È passato ormai qualche anno da quando, sempre a Parma, in un bel concerto di beneficenza, Michele Pertusi cantò il finale del Don Quichotte di Massenet con Roberto de Candia quale Sancho, ma il ricordo resta indelebile: lo Chevalier à la triste figure intonava la sua estrema, poetica filosofia, mentre arrivavano dal profondo dell'anima gli accorati, toccanti “O mon maître” dello scudiero. Quella prima volta trovò poi la più bella realizzazione nella messa in scena completa a Torino (e resta un delitto che nessun altro teatro abbia pensato di riprendere quest'opera con questi protagonisti), e per chi l'ha vissuta in teatro e ha avuto la fortuna di seguire questi artisti fin dai primi anni, uno dei tanti esempi di un clima incantato di entusiasmo, autentica stima fra colleghi, autentica passione, profondo rispetto ma anche divertimento nel far musica insieme.
Per ritrovare quell'atmosfera, siamo ancora una volta a Parma, ma all'Auditorium Paganini, per l'inaugurazione della rassegna estiva Stelle vaganti della Fondazione Toscanini, con uno di quei concerti che, un tempo, Rosetta Cucchi guidava con l'estro della pianista in cui già scalpitava lo spirito della regista e che ora organizza da direttore artistico. Prima di varcare la soglia per ascoltare i tre baritoni (o, meglio due baritoni e un bass-baryton) ci accoglie un gruppo di allievi della classe di jazz del Conservatorio parmigiano, con il bar en plein air già attivo per l'occasione: ottima idea, da ripetere e rifinire, perché il parco del Paganini sembra pensato apposta per un aperitivo in musica in attesa del concerto in sala.
Poi il pubblico prende posto, l'orchestra si prepara, giunge l'ora, il concerto ha inizio. Eccoli: Paolo Bordogna, Roberto De Candia, Michele Pertusi.
Pertusi ha uno stile, una tecnica, un'intelligenza, una classe e una musicalità tali da apparire onnipotente sul palcoscenico: di fronte al suo canto e alla sua interpretazione pensiamo che, a dispetto di quelle che possono essere le naturali predisposizioni per un repertorio, vorremo sentirlo cantare qualunque cosa. “Il mio sangue, la vita darei” e ci pare non aver mai incontrato prima, realmente, l'anima autentica del Conte di Walter, che fa dell'amore paterno origine e fine di un'ambizione portata fino al delitto; “Vous qui faitez l'endormie” e abbiamo di fronte a noi il demonio più ironico, seducente, leggiadro e terribile che si possa immaginare; “Come dal ciel precipita” e ci sembra di intendere per la prima volta, incarnazione stessa dell'idea musicale, i cupi accenti presaghi e i passi di Banco nell'ombra. Quando poi smette i panni verdiani o diabolici e torna al suo epocale Selim (ruolo debuttato a ventinove anni al fianco ancora di un Roberto De Candia allora ventiquattrenne) abbiamo ancora una volta una lezione sulla commedia rossiniana, sul carattere sfuggente, nobile e sofisticato, quasi illuminista, ma anche comico e libertino del principe turco, sul senso ultimo del canto fiorito, che se non avrà oggi l'elastiticità splendente di vent'anni fa, resta esemplare per il modo di porgere, di legare, per l'aristocratica e raffinata ironia, per la musicalità sovrana, in una parola per la purezza del belcanto nel suo significato più profondo. Osservazioni che si potrebbero ripetere senza meno per un ruolo, come Don Pasquale, affrontato integralmente invece solo in tempi più recenti, ma spesso presentato in concerto, e spesso proprio con De Candia. Questi, in veste di solista, ha modo di ribadire l'autorità del suo Figaro rossiniano, indubitabilmente uno dei migliori oggi in circolazione, ma anche di proporre un Mozart per lui meno usuale, come quello del Conte nelle Nozze di Figaro, e il Verdi collaudato del monologo di Ford. Sancho è buon discepolo del suo maître, soprattutto perché afferma una personalità spiccatissima, e capace di versarsi a diversi caratteri e affetti, con una misura quasi rigorosa: così il baritono di natura brillante risulta non solo svettante, ma soprattutto credibile e incisivo, intelligentemente comunicativo nei poco nobili tormenti dell'aristocratico Almaviva come nell'ossessione iperbolica del geloso Ford, così l'attore vince proprio per il contegno ammiccante con cui, minimalista nel gesto e nella mimica, muove al riso anche quando appare come comparsa muta (ruolo comunque democraticamente ben distribuito) a sostegno dei colleghi, essendo questo un recital che inevitabilmente e con studiata spontaneità scivola nel teatro vero e proprio, con mille dettagli più o meno improvvisati a ricordarci il gusto sapido per il gioco e la commedia dei tre solisti. Solo l'amore più profondo e la più profonda dedizione alla musica e al teatro possono trasformarsi nel piacere di condividere il palcoscenico e di far partecipe amichevolmente il pubblico di un divertimento e di una passione che hanno radici lontane e si basano giorno dopo giorno, nota dopo nota, parola dopo parola, sulla più seria e rigorosa preparazione. Tutti vantano una dizione più che chiara, perfetta, una capacità di far vibrare vocali e consonanti con espressiva musicalità, ciascuno affermando un proprio fraseggio unico e inimitabile.
Lo vediamo fin dal primo duetto, quando il Dandini di De Candia aveva incontrato il Don Magnifico di Paolo Bordogna, che riesce a sua volta a stupire ad ogni ascolto per l'originale scavo della parola degno del miglior attore di prosa. Non imita nessuno, né in questo duetto né in quello del Turco in cui come Don Geronio fronteggia ad armi pari il Selim di Pertusi, né in nessuna delle tre arie. In “Sia qualunque delle figlie” è ancor più cinico, asciutto e tagliente di quanto non ricordassimo, senza indulgere in effetti d'alcun tipo, ma è ancor più il suo Dulcamara a colpire per l'autorità con cui pesa, serissimo, giocando su note tenute e scarti dinamici, le parole per colpire i rustici, lasciando intendere poi il profumo di modi da venditore che restano però sottilissimi dettagli più che plateali richiami. Egualmente il monologo di Beaupertuis dal Cappello di paglia di Firenze di Rota è non solo un capolavoro musicalmente, ma soprattutto, uno straordinario pezzo di teatro, che Bordogna esalta da par suo.
Quando si trasforma “Cheti cheti immantinente” da duetto in terzetto (soprannominato “Don Pasquale terzettato”) è la consacrazione di tre artisti veri, con personalità distinte ma che condividono la stessa idea del far musica e teatro insieme e, dunque, sposano a meraviglia timbri e temperamenti, con gusto sempre impeccabile e succoso anche nell'invenzione più libera e fin goliardica, come appare evidente nei due bis, la canzone napoletana 'O marenariello di Gambardella e “Some enchanted evening”, da South Pacific di Roger & Hammerstein
Grandi applausi, vero entusiasmo, che ha coinvolto anche l'Orchestra Filarmonica Toscanini diretta da Antonello Allemandi (impegnati oltre che in Mendelssohn, anche nella Chanson de nuit n. 1 di Elgar, nell'Intermezzo di Cavalleria rusticana, nella Sinfonia dalla Forza del destino.
E ci inoltriamo nella brezza gentile delle notti estive in Emilia con un misto di gioia, gratitudine e struggente nostalgia.