L'orizzonte nel canto

di Roberta Pedrotti

Ludovic Tézier, con Thuy Anh Vuong al piano, offre uno splendido recital in cui l'essenzialità estrema corrisponde alla massima espressione di un canto nobile e ispirato dal Lied alla mélodie all'aria d'opera.

Streaming da Milano, 7 marzo 2021 - All’artista vero basta poco, pochissimo, praticamente nulla. Uno sgabello. Ludovic Tézier si siede, assorto. Il leggio con il rettangolo nero del tablet, spartito digitale alternato a quello cartaceo, sottolinea discreto un’atmosfera intima, di lettura e meditazione sul testo. Così si delimita la dimensione cameristica, siano pagine isolate o estrapolate da altri cicli, di Schumann e Schubert, Duparc, Fauré, L'horizon chimérique dello stesso Fauré, le Quatre chansons de Don Quichotte di Ibert. Per le arie d’opera, Offenbach, Čajkovskij, Verdi, Giordano, non occorre altro che alzarsi in piedi per marcare la differenza. Nell’uno o nell’altro caso, importa poco se il leggio sia o meno utile promemoria: sta lì, come oggetto di scena, a ricordarci che questo è un recital, ma che anche un recital, con gusto, è un po’ teatro.

Qui, il gusto gioca tutto per sottrazione, il passaggio dal Lied al grande monologo melodrammatico non comporta cesure fra intellettuale e popolare, fra introspezione ed esuberanza. C’è la musica, c’è il testo, da trattare con egual cura, c’è il contesto, in questo caso della distanza, della solitudine, della resistenza nel fare arte e incontrare l’altro. Non per nulla, il programma si apre con An die Musik di Schubert, inno affettuoso all’arte che di fronte alle ore grigie, alle vicende soffocanti dell’esistenza schiude mondi e tempi migliori. Da lì, nostalgie, percezioni vaghe, notturne, distanze e desideri si alternano fra Dichterliebe, amor di poeta, di Schumann e Schwanengesang, canto del cigno, di Schubert, fra le atmosfere marine e cullanti che da Fauré (L’horizon chimérique e Les berceaux) e Duparc (L’invitation au voyage, su versi di Baudelaire) si ammantano di simbolismo, ben sostenuto dal tocco netto, all’occorrenza liquido e rarefatto, di Thuy Anh Vuong al piano. Viceversa, la concretezza della parola e di impulsi ritmici di colore iberico danno sostanza alle Quatre chansons de Don Quichotte di Ibert, piccoli quadri di un’azione vocale di cui ancora una volta Tézier inquadra esattamente la dimensione drammaturgica e l’astrazione cameristica rispetto alle pagine estrapolate da un contesto teatrale. Qui c’è un personaggio, un prima e un dopo, una causa e un effetto. C’è il piano subdolo di Dapertutto, l’amore di Eletckij, la foga disperata di Rigoletto, il disincanto, il rimorso e l’utopia di Gerard. Ma non si calcano le tinte, non si caricano gli accenti, si continua a soppesare il legato, la parola, le dinamiche sobrie di chi, più dei grandi effetti e contrasti, ama il nobile contegno di sfumature sottili, impercettibili ma significative varianti nel dire in musica. Ci importa computare se tutti i suoni saranno perfetti? Francamente, poco, benché Tézier sia uno splendido cantante, abbia un’emissione morbida, rotonda, un’articolazione nitida nella continuità delle arcate, omogeneità in tutta l’estensione e in tutte le dinamiche: non è una macchina, è un artista. Di una macchina di cui misurare l’esattezza non sapremmo che farcene, abbiamo bisogno, invece, di un artista che anche in un teatro vuoto sa raggiungere il pubblico raccogliendosi nel senso del canto, in una poesia, in un ciclo, in un istante in cui un personaggio, anche lui, perde il teatro, il pubblico e si trova solo con un frammento di canto.

Ancora, una parola sarebbe di troppo. Parla la musica in due fuori programma, in tedesco, per chi è passato dalla lingua di Goethe a quella di Dante, da quella di Hugo a quella di Puskin senza il minimo impaccio: un Lied, Zueignung di Strauss, e un brano d’opera, O du, mein holder Abendstern da Tannhäuser. Ancora una volta, le difficoltà scivolano via in un bicchier d’acqua di fronte all’ispirazione nobile del poeta.