A quest'ora, fra un anno

di Roberta Pedrotti

Prosegue la stagione in streaming dei recital di canto del Teatro alla Scala. Kate Lindsey dedica il programma a Kurt Weil e disegna con il pianista Baptiste Trotignon un percorso avvincente e sofisticato che si intreccia con l'opera di Zemlinsky e dei suoi allievi Alma Schindler-Mahler e Erich Korngold, la cui biografia seguirà un tracciato analogo al quasi coetaneo Weill.

Un recital solistico è ben più di un godibile florilegio di brani e ce ne rendiamo conto soprattutto con i nervi scoperti delle esecuzioni a porte chiuse o semichiuse. Dalla Scala abbiamo avuto la delicatezza di Sabine Devieilhe con la mélodie e la chanson francese, l’approccio franco al Lied di Markus Werba, quello riflessivo fra opera e musica da camera di Ludovic Tézier, perfino quello kitsch e arruffato di Vittorio Grigolo. C’è chi fa parlare solo la musica, chi invia un saluto al pubblico, chi giogioneggia. E, ora, c’è Kate Lindsey, per quello che potrebbe essere un aperitivo all’imminente appuntamento con Brecht/Weill nel cartellone operistico. A dire il vero, è subito chiaro che più di aperitivo e portata principale, si tratta di un accostamento complementare. Da un lato avremo il teatro della coppia geniale, dall’altro ci si muove frai ritratti concentrati da Weill nello spazio di un song, sia esso autonomo o inserito in un contesto più articolato. Intorno, un altro compositore di origini ebraiche, quasi coetaneo, che come lui lasciò l’Europa con l’avvento del nazismo e rinnovò carriera e fortune negli Stati Uniti, Erich Korngold. E, allora, si risale al maestro di Korngold, anzi, un maestro dei maestri ché le sue doti didattiche sopravanzarono in fama quelle pur notevoli di compositore e direttore, Alexander von Zemlinsky. E, allora, s’incontra anche la musa del secolo, l’altra allieva di Zemlinsky, dolorosamente amata, futura moglie, fra gli altri, di Gustav Mahler, Alma Schindler. Il percorso dalla Germania agli States di Kurt Weill s’intreccia a quello dalla Vienna della Secessione a Hollywood, dal cabaret al cinema, da Mahler al musical. In esso, una miriade di caratteri e storie, crudeli, sarcastici, irridenti, elusivi, nostalgici o esuberanti. Dal fermento ai limiti della tonalità, agli spigoli espressionisti, all’insinuante melodia che sa di swing e jazz. 

D’altra parte, se la formazione del mezzosoprano è di matrice classica, quella del pianista è schiettamente jazzistica. Baptiste Trotignon ha tocco brillante ed elastico, entra in dialogo con la voce e le partiture con grazia, tecnica e spirito, senza mai soverchiare la scrittura, anzi, portando la ricchezza di un punto di vista originale. Va da sé che il Weil statunitense (anche nell’assolo della trascrizione pianistica di September Song) sia il suo pane quotidiano, ma anche che questo non possa esistere senza l’humus dell’Europa e della Vienna dei primi del secolo scorso, che nuovi linguaggi s’insinuino, che le radici non si perdano. 

Kate Lindsey introduce brevemente i vari segmenti del recital. Semplice, chiara, precisa ed empatica, spiega le caratteristiche del programma e le motivazioni degli accostamenti. Poi si presenta sul palco: stivaletti, collant, shorts, casacca semitrasparente che sfuma dal perla al nero su un body pure nero, al suo fianco Trotignon in camicia fucsia e braccialetti etnici. Sobria, ma anticonvenzionale, o, meglio, perfettamente intonata con quel che va a cantare per un concerto splendidamente borderline. Già in tutt’altro repertorio, con un CD che si muoveva fra Scarlatti e Haydn, avevamo apprezzato la capacità del mezzosoprano di adattare l’emissione alle esigenze espressive e stilistiche di ogni singolo brano. Qui, in un arco temporale ben più ristretto, addirittura si supera mantenendo riconoscibilità del timbro e il focus dell’emissione classica accarezzando il semi parlato e lo sprechgesang, lo swing, il canto jazz. Tutto ben definito, eppure omogeneo, così come il controllo della vibrazione della voce e del colore, immediatamente definito brano per brano. Sfumato e notturno in Zemlinsky e Schindler (donna di straordinari talenti, ma il cui genio era forse più nel carisma che nella creazione artistica, pur assai pregevole), il canto di Lindsey ci fa avvertire le ombre indefinite da cui esploderà l’espressionismo. Il primo Weill, non solo in coppia con Brecht, sa essere lancinante, cupo, acuminato: sentite Nannas Lied, sentite il Barbara-Song incuneato dopo il mormorare sprezzante di Seeräuberjenny. Sentite l’inventiva più accattivante, morbida, ma non meno serpentina e mordente - anche sul piano politico e sociale - del periodo americano, Lady in the Dark, One touch of Venus, Lost in the Stars… Intanto, spunta Korngold, spunta Schindler-Mahler, ritorna Zemlinsky anche come suggello finale. No. Il suggello finale, fuori programma, è “This time, next year”, l’ultimo song composto da Kurt Weil poco prima di morire. “This time, next year could tell a different story [...] It's near, it's almost here, maybe this time next year”. Speriamo davvero che un’altra storia sia vicina, quasi arrivata per applaudire concerti come questo, sorridenti, seduti fianco a fianco.