Verdi secondo Muti

di Antonino Trotta

In occasione della giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid-19, Riccardo Muti torna sul podio del Teatro Regio per un concerto straordinario che prevede la Sinfonia da Giovanna d’Arco e due numeri dai Quattro pezzi sacri. Di lusso la presenza di Eleonora Buratto nel Te Deum.

Streaming da Torino, 18 marzo 2021 – Mezzo secolo in poco più di quaranta minuti. Mezzo secolo è la distanza siderale che separa Giovanna d’Arco dai Quattro pezzi sacri, due lavori che per ispirazione, caratteristiche e destinazione forse in comune hanno solo il nome dell’autore; mezzo secolo è la misura più immediata – o forse razionalmente comprensibile – della carriera di Riccardo Muti, oltre mezzo secolo passato sui podi di tutto il mondo, con le orchestra migliori del mondo e una bacchetta che, in una solo serata, sa far sfoggio dell’esperienza di una vita.

È sufficiente ascoltare la Sinfonia da Giovanna d’Arco, opera afferente ai cosiddetti “anni di galera”, per cogliere tutti i crismi del Verdi secondo Muti. A differenza della Sinfonia da Nabucco I lombardi alla prima crociata, Ernani e I due Foscari si aprono con un preludio – che è costruita con la tecnica del pot-pourri, quella della Giovanna riassume i punti cardine della vicenda attingendo comunque a un lessico piuttosto convenzionale. Nell’Allegro dell’Introduzione, sulfureo e irrequieto, Muti imprime dall’Orchestra del Teatro Regio, in forma strepitosa, una cifra estremamente evocativa: la scansione ritmica graffiante e serrata, le dinamiche stressate fino all’esasperazione, il timbro così caliginoso e temporalesco ben alludono al clima di guerra che fa da sfondo alla narrazione. L’Andante pastorale del cantabile centrale, un pezzo concertato per flauto, oboe e clarinetto, è un’oasi di grazia celestiale che introduce la figura della fanciulla guerriera in tutta la sua virginale purezza. Muti ora ribalta completamente la prospettiva direttoriale: i suoni sono leggiadri e tersi, l’atmosfera quasi idilliaca, l’orchestra in assoluta trasparenza con quei pizzicati mai così delicati e impeccabili. Già che si parla di dolcezza, fa piacere in questa speciale occasione ricordare che il primo flauto, la bravissima Sara Tenaglia, distintasi egregiamente nel cantabile della Sinfonia, vinse il concorso al Regio nel 2018 dopo aver militato tra le file della Cherubini e che fu presentata per la prima volta al pubblico torinese da Riccardo Muti stesso alla fine del concerto tenutosi al Lingotto con la sua rampante formazione giovanile. Decisamente originale, infine, l’Allegro marziale del finale concitato. Bando a ruggiti, testosterone e impeti risorgimentali, Muti concerta la chiusura della sinfonia con passo maestoso e regale – e in effetti ci sta giacché nel Prologo, dopo il coro iniziale, arriva subito re Carlo con la sua cavatina «Sotto una quercia parvemi» –, attentissimo ai disegni strumentali e al dettato che nella loro apparente semplicità temperano uno stato di generale eccitazione.

Stabat Mater e Te Deum aprono all’ascoltatore tutt’altri orizzonti. Partendo dal presupposto che il magnifico Coro del Teatro Regio di Torino potrebbe eseguire i Quattro pezzi sacri anche senza direttore – li hanno incisi con Noseda, li hanno portati in tournee all’estero e li hanno sempre in canna, tipo arie di baule, quando c’è da rimpiazzare un programma saltato all’ultimo minuto –, appare abbastanza facile comprendere l’eccezionalità del risultato ottenuto sotto la guida di Riccardo Muti. Sebbene spesso si legga in quest’ultimo Verdi un’adesione, anzi un’anticipazione del movimento ceciliano, la statura teatrale del Cigno di Busseto è assolutamente evidente in pagine monumentali come quelle dello Stabat Mater. Muti qui accentua il divario tra i passaggi che raccontano il dolore della Madre e quelli che invece descrivono il lato carnalmente disumano della passione, avendo cura però di muoversi da una parte all’altra secondo continuità espositive innanzitutto emotive – davvero bellissima, ad esempio, l’angosciante transizione orchestrale tra la prospettiva delle fiamme eterne, «Flammis ne urar succensus», e la subitanea implorazione della grazia, «per te, Virgo, sim defensus / in die iudicii!», scandita con un profondo senso di indegnità –. Coro e Orchestra si fondono in un unicum di rara bellezza: il Coro sfoggia possanza e omogeneità, dinamiche minuziose che si estendono dal pianissimo al fortissimo, un fraseggio curato e teatralissimo che dà risalto al testo e appare come sostenuto dal respiro orchestrale.

Al Te Deum, invece, Muti conferisce un’intenzione diversa, una tinta diversa, un significato diverso. È un’opera tutto sommato piena di luce, non sempre accecante ma sempre presente, anche quando su di essa vi si proiettano le ombre dell’inadeguatezza umana – «Dignare, Domine, die isto / sine peccato nos custodire.» –, quindi rassicurante perché innervata di speranza. Eleonora Buratto nel finale, oltre un lusso, è un vero privilegio: poche battute, è vero, ma sufficienti a esaltare il tormento di una comunità come conseguenza dell’afflizione del singolo, sufficienti per apprezzare le straordinarie qualità di un soprano che nel proprio destino ha Verdi.

Serata perfetta sebbene in streaming. Che Riccardo Muti sia solo l’inizio di una ripartenza. Vera.