L'esplosione della grazia

di Roberta Pedrotti

Dal progetto naufragato di una colonna sonora a un capolavoro divenuto suo malgrado celeberrima colonna sonora. Così, l'omaggio della Filarmonica della Scala a Stravinskij nel cinquantesimo dalla morte (6 aprile 1971) con Riccardo Chailly passa attraverso le piattaforme di Rai5 e Raiplay, straniante, complesso e avvincente com'è giusto che sia.

Rai da Milano, 8 aprile 2021 - L’omaggio della Filarmonica scaligera a Stravinskij, esiliato in streaming e tv, inizia proprio con l’unica partitura nata per uno schermo. Il progetto di una colonna sonora cinematografica, però, naufragò presto: le esigenze pratiche di Hollywood non facevano per Stravinskij, di permettere alla produzione di far riarrangiare, tagliare e cucire le partiture non se ne parlava e solo due anni prima c’era stata la pessima esperienza con Disney, che di fatto non gli aveva posto alternative nell’appropriarsi del Sacre du printemps per Fantasia. Se i dinosauri animati continuano a imperare nell’immaginario collettivo, la colonna sonora per un film sull’invasione nazista in Norvegia non vede la luce e si trasforma a una decina di misconosciuti minuti, i Four norwegian Moods. Mai eseguiti prima alla Scala, peraltro, il che rende ancor più curioso, beffardo scherzo del destino, che il debutto avvenga proprio tramite video, in forma televisiva. È un gran bel debutto, peraltro, perché Riccardo Chailly ne sbalza gli umori popolari mantenendo una delicatezza che mette in discussione - o rende quantomeno ambiguo - il carattere oggettivo dell’originario scopo e dell’elaborazione di materiale folklorico. Una sorta di piccolo poema sinfonico o un colorito divertissement modernista? L’intarsio timbrico ritmico e melico raffinatissimo (ascoltate il secondo tempo, Song e il contrasto con la successiva Wedding Dance) ondeggia con grazie fra questi due estremi come un funambolo sul filo.

Poi si balza indietro, dagli USA alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, alla Svizzera nel bel mezzo della Prima, con L’histoire du soldat, anzi, con la Suite che ne trasse nel 1919. L’organico si restringe in formazione da camera (Francesco De Angelis violino, Giuseppe Ettorre contrabbasso, Daniele Morandini trombone, Valentino Zucchiatti fagotto, Fabrizio Meloni clarinetto, Marco Toro cornetta, Gianni Arfacchia percussioni), guizza l’agile archetto del Soldato nel labirinto di sfacciata pura materia musicale fatta indifferentemente di marcia, tango, valzer, ragtime. Tutti i ritmi, d’altra parte, sono stati popolari prima di essere nobilitati, e tutti i ritmi non sono, di per sé, altro che ritmi, sequenze di impulsi e accenti, oggetti sonori da combinare attorno al filo della fiaba. Ancora una volta il gusto estroso del racconto attorno al fuoco si stringe all’astrazione, fra straniamento e mimesi, in contorni metaforici e filosofici, con strumenti come dinoccolati personaggi, sagome danzanti, spiriti sogghignanti con una loro certa qual grazia.

E ribalziamo indietro, a Parigi, prima della Grande Guerra, nella Parigi che si innamora dei Ballets Russes, ma che si scandalizza, si imbizzarrisce, ignara della tragedia che sta per devastare l’Europa, alla ricerca di conferme e rassicurazioni e non di presagi di forze e fratture. Dopo l’Igor Stravinskij nato russo nel 1882 e in procinto di diventare (e morire) statunitense, abbiamo incontrato Igor Stravinskij in Svizzera, ora lo troviamo parigino, ma ancora legato alla madrepatria. Tre istantanee della sua testimonianza cosmopolita del XX secolo, del suo attraversare i linguaggi padroneggiandoli, metabolizzandoli senza mai farsene assorbire: scrisse musica neoclassica o dodecafonica, ma sempre riconoscibile, visse in paesi diversi e parlava molte lingue ma bene, forse, nessuna. Curiosamente, dopo il tentativo fallito di scrivere per il cinema ritorniamo indietro proprio alla partitura di cui il cinema si appropriò rendendola familiare ai bambini di tutto il mondo. E sì che nel 1913 i parigini si erano scandalizzati e imbizzarriti di fronte a Le sacre du printemps e ancora oggi risulta perturbante quell’assolo acutissimo del fagotto attorno al quale sembrano gemmare richiami e riverberi in tutta l’orchestra. Sempre mantenendo quell’equilibrio, quel controllo, quella sorta di grazia che sono la cifra della serata, Chailly avviluppa su quel filo di suono un discorso continuo, un moto perpetuo che senza un attimo di respiro seguita a intrecciarsi e sciogliersi, fino a sfiorare il parossismo, senza mai perdere lo sguardo su una complessità pulsante anche nelle distensioni, nell’emergere di correnti melodiche nell’impellenza ritmica, nello scintillare di strumenti di cui Stravinskij sembra ribaltare o enfatizzare all’estremo le consuete caratterizzazioni. E anche quella che abbiamo voluto chiamare grazia, non è certo tale per uso quotidiano, ma per il suo modo perturbante di essere solo un volto dello sconquasso della natura e dell’istinto, una manifestazione dell'energia che esplode senza lacerarsi cieca. 

Fa una certa impressione sentire questo prepotente, fisico, consapevole, sconquasso, queste sferzate in realtà sapientissime racchiuse nel perimetro di uno schermo nero: dovremmo vibrare con loro nella stessa sala. Ma forse pochi posso esprime questo disagio come il proteiforme, inconfondibile, ambiguo, oggettivo Stravinskij, tuttora uno dei compositori più contemporanei d’ogni tempo. E sempre sia lodato.