Dedicato a Graham

di Roberta Pedrotti

Il primo concerto lirico sinfonico del XLII Rossini Opera Festival segue il percorso del belcanto da Rossini a Verdi attraverso l'intelligenza artistica di Mariangela Sicilia, che approda a un bis pucciniano dedicato al grande regista scomparso in luglio.

Pesaro 13 agosto 2021 - Ai concerti di canto non si dovrebbe andare per sentir cantare. O, meglio, non solo. Non solo per infilare una serie di belle arie con una bella voce. Certo, il pot pourri, se ammanito da un grande artista, può appagare i sensi, ma è quando si dà un senso, una drammaturgia ideale al programma che allora il genere del recital o del galà acquista un vero significato.

Senz'altro, Mariangela Sicilia canta tante belle cose, e sfoggia tre begli abiti, ma se si fermasse a questo impallidirebbe la ragion d'essere del suo concerto lirico-sinfonico in seno a un festival come quello di Pesaro. Invece, le arie scelte non sono solo una gioia per i melomani più avveduti, ma disegnano anche un percorso dal tragico sublime rossiniano, da eroine oppresse o trionfanti, alla coloratura più spensierata della giovane e amorosa Zaira belliniana, alla regalità non meno elevata, ma già spiccatamente romantica e vaneggiante di Anna Bolena, al canto agitato dell'ultima erede delle belcantiste sentimentali e semiserie (Ninetta nella Gazza ladra o Amina nella Sonnambula) destinata al contrario delle sorelle maggiori a funestissimo epilogo, Luisa Miller. Evoluzioni e diverse declinazioni di una continuità di stile e di linguaggio, insomma. Così, a ben guardare, i tre abiti non sono che tre costumi di scena: neoclassico taglio impero rosso passione per Amenaide, Armida e Anna Erisso; delicato color cipria castamente accollato per le fanciulle Zaira e Luisa; foggia nuziale per Anna Bolena che attende il patibolo rivivendo il passato matrimonio con Enrico VIII.

Che il soprano calabrese canti bene, benissimo non è una scoperta di oggi, ma colpiscono sempre la morbidezza dell'emissione e, considerata l'evoluzione del repertorio verso parti sempre più decisamente liriche, l'esattezza disinvolta del registro acuto, la musicalità che le permette di affrontare senza problemi un'aria infernale come “D'amore al dolce impero”. Sì, forse Armida, soprattutto oggi, non sarà il suo personaggio di elezione, ma non è facile ascoltarla come in questo caso da una voce così rotonda e presente con una tale chiarezza di dizione e articolazione senza tradire la coloratura. Poi, quel che fa l'artista non è solo lo strumento, la tecnica, la preparazione, ma l'intelligenza, la comprensione del testo e del contesto, dello stile e della situazione per indirizzare e sfruttare i propri strumenti. La scena di catene di Amenaide, la preghiera di Anna Erisso o il delirio di Anna Bolena possono egualmente sfoggiare legati, filature, pianissimi e giochi dinamici, ma non lo faranno allo stesso modo, perché sono personaggi diversi, drammaturgicamente differenti, stilisticamente distinti. Non manca di forza e varietà il recitativo dal Tancredi, senza perder di vista lo spirito aulico del dramma neoclassico; così, non cessa d'essere nobile Anna Bolena pur declinando il topos romantico della follia femminile. In ogni caso, finalmente, non si inanellano accenti ispirati a effetto, ma si bada alla sintassi, al senso vero del testo: la fanciulla siciliana è davvero assediata prima di tutto dalla mancanza di fiducia dell'amato (“Moro, Tancredi, io per te moro! E tu infedel mi credi!”); la regina ripudiata è davvero stupefatta per il pianto delle ancelle, assorbita com'è dalla fuga della sua mente, che la porterà anche al dolore estremo, per altre vie. I gesti, gli sguardi sono quasi come in scena: quasi, perché, se anche il recital è teatro, comunque non è opera.

Il programma è punteggiato da cinque sinfonie: di Rossini Tancredi e Armida, di Bellini Norma, di Donizetti Anna Bolena e di Verdi Luisa Miller. Yuval Zorn, accompagnatore attendo del canto, le conduce in porto con mano sicura a capo dell'Orchestra Sinfonica Rossini, benché la disposizione diffusa in platea – e la conseguente disomogeneità acustica per il pubblico nei palchi – suggerisca un'impostazione più pratica e compatta che analitica e ricca di dinamiche.

Alla fine il cammino arriva alla sua ultima meta. Si potrà dire che “Donde lieta uscì” è un bis d'obbligo per una cantante che ha fatto di Mimì una sua parte d'elezione, e senz'altro è (anche) così. Si potrà dire, entrando nel merito della costruzione del programma, che proprio quel cammini che dalle eroine rossiniane e dall'opera di mezzo carattere arriva a Luisa Miller (e alla Traviata) avrà come sbocco proprio La bohème: un'altra apparente commedia, personaggi borghesi o umili, amori sinceri e quotidiani, la tragedia dietro l'angolo. Senz'altro è (anche) così. Poi però c'è dell'altro. C'è quella Mimì che Mariangela Sicilia cantò a Bologna nel 2018, c'è stata un mese fa la scomparsa atroce di Graham Vick e a lui è dedicato questo Rof. Tutto sta in quel canto che trascende la commozione, che fa sentire le lacrime roventi, il nodo alla gola, gli spasimi dei singhiozzi, ma non si fa ostacolare da essi. Tutto sta in quel perfetto “Addio, senza rancor” che non è solo la fine dell'amore fra Mimì e Rodolfo, ma l'ultimo saluto a chi se ne è andato troppo presto e resterà sempre nel cuore. Lo spiega, poi, il soprano, annunciando dopo aver cantato che il bis era dedicato a Graham. Allora lì, finalmente, la voce parlata può rompersi davvero, crepata da quel pianto che è anche il nostro.