Il piglio dei sommi

di Mario Tedeschi Turco

Martha Argerich ribadisce la sua grandezza in concerto con la Manchester Camerata diretta da Gábor Takács-Nagy per il Settembre dell'Accademia Filarmonica di Verona.

VERONA, 19 settembre 2021 - Manchester Camerata è un’orchestra da camera particolarmente attiva nell’ambito della musica del 900 e contemporanea. Arrivata in Italia per due date (Verona e Ferrara), in formazione solo archi, ha arruolato il virtuoso della tromba Sergei Nakariakov e Martha Argerich, in modo da poter proporre il Concerto per archi, tromba e pianoforte di Šostakóvič, che della serata è stato il cuore, dopo Introduzione e Allegro per quartetto e orchestra d’archi di Elgar, e prima delle Danze popolari rumene di Bartók (arr. per soli archi di Arthur Willner) e della Serenata, op. 48 di Čajkovskij.

L’ensemble si è presentato in formazione 1+5-5-4-4-2 (Leader Caroline Pether), con il suo direttore stabile Gábor Takács-Nagy: l’impressione generale è stata quella di un gruppo di straordinaria compattezza e precisione, di quelli che suonano in modalità automatica, per dir così, laddove l’affiatamento è tale da non richiedere altro che rapide occhiate di intesa tra gli strumentisti. Il ruolo di Takács-Nagy e del suo mobilissimo, elastico braccio sinistro pare chiedere variazioni di dinamica, intensità di legati, accensioni espressive, laddove certo non si rendevano necessarie indicazioni ritmiche o di attacco, tale la coesione cronometrica dei professori. L’idea anzi, specie in Elgar, è stata quella di un certo qual eccesso di pathos, come se la Camerata non si appagasse dell’esecuzione esatta, ma tenesse a sottolineare di continuo le arsi e le tesi, aggiungendo di suo colore ed espressione dove forse non erano necessari. In Elgar, dicevamo, il contrappuntismo della partitura è stato decisamente sottomesso allo spirito del canto, la qual scelta è certo lecita e anzi giustificata dalle parole dello stesso compositore («Mi trovavo nel Cardiganshire, quando pensai di scrivere un pezzo brillante per orchestra d’archi. Mentre ero sulla scogliera, tra l’azzurro del mare e del cielo, elaborando il tema mi giunsero all’orecchio i suoni di qualcuno che cantava. Le canzoni erano troppo lontane perché io le potessi distinguere, ma avevano un qualcosa in comune che mi impressionò: l’intervallo di terza discendente»), tuttavia la suggestione ultra-romantica, per un pezzo in ogni caso strutturato come un concerto grosso secondo dispositivo arcaizzante esplicito, non è stata del tutto soddisfacente. Molto opportuna, e anzi ideale, la medesima opzione in Čajkovskij, specie nella sublime Valse, quando la Camerata non ha fatto rimpiangere un organico più ampio (come avrebbe desiderato il compositore, che si augurava d’avere a diposizione «più strumentisti possibile», giusta la dimensione pienamente sinfonica della scrittura), andando ad amplificare in forza di vibrato, messe di voce, escursioni dinamiche estreme, il rapimento estatico della melodia, così come l’energia cinetica del finale sul tema russo.

Detto di un virtuosismo di puro edonismo sonoro nell’arrangiamento delle Danze di Bartók (eccellente il violino della Pether), veniamo al Concerto di Šostakóvič. Un’interpretazione perfetta, da parte di tutti, in cui non sapevi se ammirare di più l’emissione cristallina di Nakariakov, l’impeto degli archi o la sprezzatura olimpica di Martha Argerich, perfettamente a proprio agio nel canto, nei passaggi accordali, nel dialogo con l’ensemble o l’altro solista, ovvero nel virtuosismo puro. Con il piglio nonchalant dei sommi, Argerich ha plasmato la sua parte in sintonia con Takács-Nagy trovando tutta la gamma dei gesti espressivi del testo, dall’elegiaco al sardonico, dalla deformazione circense a quella militaresca, dalla schietta esaltazione del suono al macchinismo ritmico/percussivo, facendo giungere al pubblico del “Settembre dell’Accademia” al Filarmonico il soundscape degli anni 30 sovietici - ma in generale di tutta l’Europa centro-orientale -, in cui il modernismo eclettico dello stile si faceva tutt’uno con una vitalistica e trasognata visione del mondo, dell’umanità e del loro futuro. Se è pur vero che il testo pianistico di Šostakóvič non propone particolari insidie per ciò che attiene i piani sonori, è altrettanto certo che senza un controllo esatto dei volumi, della plasticità acustica come dell’esattezza della pulsazione non si arriva a coglierne né la complessione assoluta, né le improvvise, spiazzanti oasi liriche, le quali insieme costituiscono il manifesto di un’epoca. Argerich, con Nakariakov e Takács-Nagy, i colori e le forme di quel manifesto li hanno restituiti tutti interi: lontani e allo stesso tempo attualissimi.