Palingenesi carusiana

di Luigi Raso

Tre tenori (in rigoroso ordine alfabetico, Xabier Anduaga, Francesco Demuro e Francesco Meli) con la complicità sul podio dell'ottimo Marco Armiliato celebrano il mito di Enrico Caruso nel teatro della città natale del tenore.

NAPOLI, 19 settembre 2021 - Quello tra Napoli ed Enrico Caruso fu un rapporto viscerale, mai interrotto, neppure quando a separare il tenore dalla propria città natale vi era l’oceano Atlantico; e come tutti i rapporti coinvolgenti fu tormentato, in particolare quello con il massimo teatro della città, il Real Teatro di San Carlo.

Una leggenda, per fortuna definitivamente accantonata dalla seria storiografia, raccontava del giovane tenore fischiato al suo esordio sancarliano, sul finire del dicembre del 1901, nei panni di Nemorino dell’Elisir d’amore. Nulla di più falso. Il tenore napoletano, reduce dal trionfo riscosso alla Scala nella stessa parte sotto la direzione di Arturo Toscanini, riscosse un notevole e crescente successo di pubblicò. Ciò che irritò ferocemente Caruso fu una critica del barone Saverio Procida, severa firma del Pungolo: in breve, questi, pur apprezzando le doti vocali del tenore, non comprese la portata rivoluzionaria della vocalità e dello stile di Caruso; ma soprattutto ritenne l’interpretazione di Caruso ben poco appropriata alle “agilità d’un canto leggero e fiorito come quello dell’Elisir (…). A volte Nemorino ha il gesto, il fragore vocale e l’accento eroico di Raul o di Enzo Grimaldo. Io credo che il Caruso debba fissarsi in un genere drammatico che, senza levarsi all’eroico, spazi fra l’ardore della passione moderna. Accento caldo, vibrazione intensa, suono poderoso, costituiscono il bel patrimonio della sua voce, e ieri, nella romanza, l’accento di dolore fu così caldo, così schietto e l’innestò in certi ardui passaggi così bene, che non fece più dubitare della meta cui deve tendere il Caruso”.

La critica del barone Procida, benché avesse individuato proprio i punti di forza della vocalità, infastidì non poco Caruso, il quale si limitò a cantare un’ultima volta al San Carlo nel mese di gennaio 1902 come Des Grieux della Manon di Jules Massenet.

In seguito, anche perché assorbito dagli impegni nei teatri statunitensi, non si esibì mai più nella propria città natale, pur non mancando di trascorrevi quasi ogni anno periodi di vacanza. Ad ogni modo non furono mai recisi i numerosi rapporti di amicizia e generosità che tenevano legato l’ex scugnizzo-posteggiatore del Borgo Marinai al proprio coacervo di affetti napoletani.

E pure il San Carlo, pur non potendo essere annoverato tra i teatri “di” Caruso, non ha mai mancato di celebrare i centenari della nascita e, in questo 2021, della morte.

Nell’aprile del 1973 Francesco Canessa - allora eminente critico musicale e, qualche anno più tardi, sovrintendente del San Carlo - organizzò un concerto (a detta dei presenti, di grande interesse: chi scrive ancora non esisteva, ma i genitori ne conservano vivido il ricordo) che radunò sul palcoscenico del San Carlo Mario Del Monaco, Ferruccio Tagliavini, Luciano Pavarotti, Vladimir Atlantov, Alain Vanzo, tutti diretti da Oliviero De Fabritiis. Il programma, ovvio, interamente costituito da arie legate alle interpretazioni e incisioni di Enrico Caruso (per chi fosse interessato, l’audio di quel concerto è presente su YouTube al seguente linkhttps://www.youtube.com/watch?v=Ut4Vz90X6Eo&t=665s )

A quella serata di quasi mezzo secolo fa serata erano presenti in sala Enrico Caruso junior, figlio di Enrico e di Rina Giachetti, e i discendenti del barone i quali siglarono una simbolica pace: la frattura tra il critico Saverio Procida e il tenore era dunque idealmente ricomposta.

Doveroso per il San Carlo ricordare Enrico Caruso anche nell’anno del primo centenario della scomparsa (qui vi abbiamo raccontato alcune cerimonie celebrative che si sono tenute a Napoli lo scorso 2 agosto: https://www.apemusicale.it/joomla/terza-pagina/12184-napoli-le-celebrazioni-del-centenario-della-morte-di-enrico-caruso-02-08-2021): il Teatro lo ha fatto allestendo al Memus, il Museo e Archivio Storico del San Carlo, una mostra che raccoglie alcuni autografi carusiani (cartoline, lettere, fotografie e le immancabili e deliziose caricature di pugno di Caruso) provenienti dalla Biblioteca Lucchesi Palli, sezione della Biblioteca nazionale di Napoli.

Si tratta di un’esposizione incentrata sul rapporto di fraterna amicizia tra il grande tenore e Angelo Arachite, figura marginale e poco conosciuta - riscoperta per l’occasione da Dinko Fabris, musicologo e Direttore Scientifico del Dipartimento ricerca del San Carlo - della complessa biografia di Caruso. All’inaugurazione della mostra è seguita, il 18 settembre, una giornata di studi intitolata “Enrico Caruso da Napoli all’America”.

Per il giorno successivo, Festività di San Gennaro Patrono di Napoli, il San Carlo ha organizzato un concerto con tre tenori che ha visto la partecipazione, in rigoroso ordine alfabetico, di Xabier Anduaga, Francesco Demuro e Francesco Meli, diretti dalla esperta e sempre più apprezzata bacchetta di Marco Armiliato.

Programma imperniato sul repertorio carusiano, un tour musicale tra arie e canzoni napoletane.

All’Orchestra di casa, perfettamente guidata da Marco Armiliato, è riservata l’apertura, una calibrata esecuzione della Sinfonia da La forza del destino, che ben assembla la vis drammatica con l’anelito elegiaco del brano.

E spiace che questo sia l’unico brano in programma affidato all’orchestra del San Carlo, una compagine che si presenta in ottima forma all’appuntamento. La direzione di Armiliato, come dimostrato dall’accompagnamento di tutte le arie, inoltre, è di quelle che conoscono a perfezione il complesso meccanismo dei segreti grazie ai quali uno spettacolo lirico si assembla.

A Francesco Meli, inspiegabilmente debuttate al San Carlo soltanto questa sera, spetta l’onore di aprire il Gala: il tenore genovese nei panni del Serenissimo Principe genovese Gabriele Adorno interpreta la meravigliosa aria “O inferno! Amelia qui! … Sento avvampar nell'anima... Cielo pietoso, rendila” da Simon Boccanegra con piglio eroico laddove si immerge nelle arroventate frasi iniziali, salvo poi cesellare con garbo, fraseggiare con leggerezza e proprietà stilistica nel meraviglioso e più disteso “Cielo pietoso, rendila.”

A Meli è sufficiente questa prima aria per sfoderare le armi di una vocalità che sa essere sia incandescente che languida, con un fraseggio attento alle indicazioni dinamiche, sfumato, variegato e analitico nel tradurre in suoni il peso della singola parola. Ha dalla sua - e non lo si scopre in questa occasione - un timbro suadente, voce dal notevole peso specifico.

Xabier Anduaga si ripresenta al pubblico sancarliano dopo il successo personale del Gala belcanto dello scorso luglio (qui la recensione: https://www.apemusicale.it/joomla/recensioni/59-concerti-2021/12142-napoli-gala-belcanto-24-07-2021 ) con un’estatica interpretazione di “Je crois entendre encore” da Les pecheurs de perle di Georges Bizet: voce da tipico tenore amoroso, timbro naturalmente interessante, linea di canto raffinata e levigata che ben sa mescolare l’uso del falsetto e delle mezze voci. Il risultato, anche in virtù del meraviglioso accompagnamento orchestrale e dei tempi estremamente rilassati staccati da Marco Armiliato, è un’aria di Nadir estatica, lunare, quasi irreale nella sua astrazione, sicuramente di estrema suggestione.

Ultimo, in ordine di tempo, a presentarsi è il Francesco Demuro; e lo fa con la Canzone del Duca di Mantova da Rigoletto, “La donna è mobile”. Piglio guascone, voce ben timbrata e ben emessa, svettante e ben puntata negli acuti sono le caratteristiche che immediatamente colpiscono della vocalità del tenore sardo.

Il ricordo di Caruso debuttante al San Carlo nelle vesti di Nemorino rivive grazie a Francesco Meli che affronta “Una furtiva lagrima”. Prima di attaccare l’aria, Francesco Meli premette di volerla dedicare a uno spettatore d’eccezione presente in sala, Luciano Pituello, massimo esperto italiano di Caruso e collezionista di preziosi cimeli del tenore, nonché di grammofoni, ma soprattutto generoso mecenate: gran parte della propria sterminata collezioni di dischi, cimeli e autografi costituisce l’ossatura del Museo Enrico Caruso di Lastra a Signa (FI). La collezione di dischi a 78 giri (circa 6000), invece, è stata donata a Casa Verdi di Milano.

Quella di Meli è un’interpretazione basata sul contrasto tra canto sussurrato, a fior di labbra, e impeto passionale; una linea di canto screziata nelle dinamiche, ben appoggiata sul fiato e con attenzione al suono della singola parola.

Xabier Anduaga, ad onor di cronaca e di verità, subentrato a pochi giorni dal Gala all’indisposto Freddie De Tommaso, propone una lettura corretta, ma troppo ingessata di “M'appari tutt'amor” a Martha di Friederich von Flotow: il timbro è pur sempre gradevole, eppure, dopo l’ottimo “Je crois entendre encore” di presentazione, si percepisce che il giovane e talentuoso tenore spagnolo abbia commesso qualche errore nella scelta dei brani e del repertorio, dovuti con molta probabilità all’improvvisa sostituzione del collega colpito da indisposizione.

Salut! Demeure chaste et pure”da Faust di Charles Gounod interpretato da Francesco Demuro costituisce ancor una volta l’occasione per ascoltare acuti sicuri e svettanti, e per ammirare l’eleganza di una linea di canto pulita, aristocratica nel suo fluire. Piazza bene, tiene e sfuma il do della présence. Ma è l’intera aria, grazie anche all’accompagnamento del violino di spalla di Gabriele Pieranunzi, a creare un bozzetto sonoro di grande effetto.

È intenso, avvolgente l’arioso “Amor ti vieta” da Fedora di Umberto Giordano affrontato da Francesco Meli: dizione scolpita, empito gagliardo connotano la concisa dichiarazione d’amore alla quale proprio Enrico Caruso diede voce e anima alla prima assoluta di Fedora al Lirico di Milano nel novembre del 1898.

Purtroppo “E lucevan le stelle”interpretato da Xabier Anduaga si dimostra, al di là delle pur pregevoli intenzioni interpretative, uno degli errori nella scelta dei brani da parte del giovane tenore spagnolo: qui a mancare sono la giusta risonanza, lo spessore e il peso specifico nel registro medio e basso, elementi necessari per affrontare la complessa orchestrazione pucciniana e per rendere una efficace rappresentazione del canto disperato del pittore Cavaradossi.

Francesco Demuro è sicuro nell’affrontare “È la solita storia del pastore” (Lamento di Federico) da L’arlesiana di Francesco Cilea: ammanta tutta l’aria di un velo di palpabile tristezza, fraseggia, sfuma e rallenta regalando una lettura intensa che sfocia nell’ultima esclamazione “...mi fai tanto male! Ahimè!” Carica di enfasi.

La seconda parte - benché il Gala sia proposto senza soluzione di continuità - è dedicata alle canzoni napoletane, da Caruso elevate al rango di arie d’opera e di cui fu e resta e insuperabile interprete, il più viscerale e compiuto.

Xabier Anduaga apre le danze con “Tu ca nun chiagne”. Dispiace sinceramente ripeterlo, ma anche per questo brano valgono le stesse considerazioni già espresse con riguardo a “E lucevan le stelle.”

Una videoregistrazione amatoriale di Marechiare cantata da Francesco Demuro in un ristorante napoletano dopo una recita di La traviata al San Carlo, attorniato da entusiasti commensali - tra i quali il soprano Nino Machaidze autrice della ripresa e l’ex Presidente della Società Sportiva Calcio Napoli, il presidente dei due scudetti, del settennato di Diego Armando Maradona, per intenderci – tre anni fa registrò ben 700.000 visualizzazioni sulla pagina Facebook del tenore: azzeccatissima dunque la scelta riproporre una lettura accattivante, gagliarda e sensuale della celebre canzone su versi di Salvatore Di Giacomo e musica di Francesco Paolo Tosti.

Si devia momentaneamente dalla tradizione canora napoletana per ascoltare Mattinata di Ruggero Leoncavallo: Francesco Meli, dopo un avvio nel quale si avverte qualche comprensibile accenno di stanchezza, si riprende e sfoggia una vocalità luminosa e ben a fuoco.

Corretto, ma compassato è Dicitencello vuje interpretato da Xabier Anduaga, il quale continua a trasmettere la sensazione di essere e di percepirsi spaesato nel labirinto della scaletta del programma del Gala; ma si ascolta pur sempre una voce dal bel timbro, che vogliamo si conservi immacolato e che non sia sottoposta a sforzi eccessivi a causa di incursioni al di fuori del proprio repertorio d’elezione.

Con Torna a Surriento Francesco Demuro ha gioco facile a conquistarsi l’apprezzamento e il vivo entusiasmo del pubblico: assottigliamenti dell’emissione, accenti incisivi, crescendo intenso e acuti ben tenuti sono le virtù con le quali il tenore sardo sa come far sicura presa sul pubblico.

Il programma si chiude con A vucchella in una raffinata versione orchestrata dal maestro Ivano Caiazza: Francesco Meli si dimostra fine dicitore dei versi di Gabriele D’Annunzio. Prestando particolare attenzione ad ogni singola inflessione e attingendo colori dalla propria variegata tavolozza sonora, perfettamente coadiuvato dall’orchestra diretta da Armiliato, crea nuances sonore di grande sensualità.

Con quale bis poteva mai chiudersi un concerto di tre tenori, tutti cresciuti musicalmente successivamente al concertone - sicuramente pop, senza dubbio gigantesca operazione di marketing, ma al quale si deve riconoscere il merito di aver saputo attrarre nuova linfa vitale al mondo dell’opera - di Pavarotti, Carreras e Domingo alle Terme di Caracalla del luglio del 1990?

Ovviamente con 'O sole mio, cantato, con equa suddivisione di strofe e ritornello, da tutti e tre, e con tanto di prolungati trilli su “..Ma n'atu sole”; il successo è tale che Anduaga, Demuro e Meli sono costretti a... bissare il bis.

Applausi prolungati, pubblico festante, atmosfera da serata ante era pandemica: che segni una palingenesi per tutti noi e i nostri teatri!