Manfred, tra Byron e Dostoevskij

di Alberto Ponti

Il direttore ospite principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale ritorna sul podio dell’auditorium con un’interpretazione di alta drammaticità della monumentale sinfonia di Čajkovskij

TORINO; 10 marzo 2022 - Delicato. È l’aggettivo che viene in mente al primo ascolto di Mugarri, lavoro per orchestra di una dozzina di anni fa del basco Ramon Lazkano (1968). Il significato letterale del termine può tradursi in ‘pietra di confine’. È una scrittura davvero materica, giocata su brandelli e accenni di suono in un caleidoscopio dinamico che raramente supera il mezzoforte, anzi più spesso palleggiato tra sussurri, sussulti strozzati, fluidi gorgoglii. Le possibilità tecniche e timbriche dell’ensemble sono nondimeno messe a dura prova da una calligrafia di precisione estrema che Robert Trevino, direttore ospite principale alla sua seconda apparizione nel corso della stagione, distilla con piccoli tocchi e sapiente visione d’insieme, eliminando il rischio di cadere nell’elaborazione del dettaglio, nell’isolamento dei singoli effetti sonori per quanto bizzarri o affascinanti. Il risultato finale è il racconto in musica di un’espansione e contrazione incessante in grado di rivelare una ruvida e sfuggente poetica proprio nella ricerca di un punto di equilibrio o di un climax per loro natura irraggiungibili visto che, per prendere a prestito le parole del compositore, ‘i suoi volumi e i suoi vuoti… sono anche il risultato di un mondo e di un’esistenza disorientati’. La musica di Lazkano, presente in sala e omaggiato del sincero applauso della platea dell’auditorium Rai, è poco incline a compromessi ma, dietro il rigore organizzativo, lascia intravedere una sensibilità di elevata finezza .

Se Mugarri è l’antipasto, il piatto forte è la sinfonia Manfred op. 58 (1885) di Pëtr Il’ič Čaikovskij (1840-1893). Trevino concerta in modo magnifico una pagina non facile ma capitale, di supremo impegno per tutti gli esecutori che, pure all’interno della produzione dell’autore in gran parte divenuta celeberrima, è spesso stata per il grande pubblico una specie di oggetto misterioso nonostante la predilezione di eccelsi direttori, da Toscanini in poi. Non inclusa nel novero ufficiale delle sei sinfonie cajkovskiane, Manfred si collocherebbe tra la quarta e le quinta e, come entrambi questi lavori, è costruito intorno a un tema motto esposto in apertura e destinato a ritornare in tutti i quattro movimenti. La fonte di ispirazione è l’Harold en Italie di Berlioz, diretto con enorme successo dal compositore francese nella sua celebre tournée russa del 1867-68, ma la sinfonia fa del soggetto byroniano, già musicato da Schumann, poco più di un pretesto per la creazione di un stile affatto nuovo per lo stesso Čaijkovskij, un unicum che è probabilmente il motivo della sua ridotta popolarità. Mancano qui, ad eccezione della splendida effusione nella parte centrale del secondo movimento, le grandi e indimenticabili melodie, vero marchio di fabbrica del maestro russo. In compenso il vasto affresco orchestrale è percorso da capo a coda da una febbrile elaborazione tematica che non ha nulla di freddo o accademico, e perfino il fugato a metà del finale stupisce per l’originalità della collocazione tra un fragoroso baccanale e l’invocazione dello spirito di Astarte, amata sorella di Manfred. Il programma c’è ed è riportato in breve, nello sviluppo della trama, sotto ognuno dei quattro quadri: il protagonista, riparato in un castello sulle Alpi svizzere, muore dopo aver tentato invano di redimere, con l’aiuto delle arti magiche, la colpa di aver provocato la morte di Astarte. Trevino dà una lettura di accesa drammaticità, di latente tensione. Il suo Manfred, tra i solenni accordi di organo finali, scompare dal mondo tutt’altro che pacificato. Merito non da poco è la capacità di tenere viva la fiamma dell’attenzione all’interno di un’opera impressionante e grandiosa per l’impiego dei mezzi chiamati in causa ma che, sotto bacchette meno magnetiche, potrebbe tendere alla divagazione ramificata in episodi splendidi ma privi di un evidente filo conduttore. Con il direttore texano, già l’incipit con lo scuro impasto di clarinetto basso e fagotti punteggiato dagli sforzati degli archi bassi inchioda l’attenzione ai futuri sviluppi. C’è da rimanere stupefatti: in perenne contrapposizione tra umorale e profetico, la partitura sembra anticipare in taluni passi Debussy (le armonie liquide del secondo tempo Vivace con spirito, con l’apparizione della fata delle Alpi tra i fiati saltellanti e i rintocchi delle arpe), in altri Stravinskij (l’Allegro con fuoco che apre il finale), per non parlare dell’ultima apparizione del tema conduttore, in un Andante con duolo del cui cupo accompagnamento bene si ricorderà Sibelius in Finlandia. Trevino sa attribuire a tutti i particolari il giusto peso, nel fedele rispetto del dettato compositivo, passando, quando necessario, in poche battute dall’impeto incontenibile dei momenti più rutilanti all’intimismo pastorale che, al di là del quadro di genere del terzo tempo (Andante con moto) spunta talvolta inaspettato, in una breve frase o in una concatenazione di armonie, tra le pieghe della prodigiosa orchestrazione. E l’Orchestra Sinfonica Nazionale si rende partecipe di una prova superba in ogni suo componente, dagli archi all’ottavino, dai legni agli ottoni tutti, fino alla nutrita schiera di percussioni in un monumento musicale che riserva a ciascuno il proprio momento di gloria, compensato dall’entusiasmo di un pubblico non folto ma impressionato a fondo. Manfred è tra i vertici dell’arte di Čajkovskij ma non sarà mai popolare quanto è veritiero. Se, dimenticando la lontana ispirazione byroniana, volessimo trovare un equivalente in prosa potremmo evocare Dostoevskij per certe atmosfere di luminosa cupezza. Come dopo una lettura del sommo romanziere, la sensazione è di essere venuti a contatto con l’essenza intima dell’anima russa che per noi europei d’Occidente, nonostante il comune destino di uomini sotto le stesso cielo, rimarrà sempre qualcosa di misterioso.