L'onestà della meditazione

di Daniele Valersi

Il festival Omaggio all'arte pianistica di Arturo Benedetti Michelangeli conclude in bellezza il programma concertistico con il recital di Stephen Kovacevich

Interviste, Stephen Kovacevich

CLES, 18 agosto 2022 - Nel recital, all'Auditorium del Liceo “Russell” a Cles, Stephen Kovacevich ha tenuto fede alla sua fama e lasciato una profonda impressione per l’onestà con cui affronta le partiture, oltre che per la scelta delle medesime, opere che in assoluto sottendono significati notevoli e che nello specifico rappresentano molto per la biografia artistica dell’interprete. A cominciare dalla Sonata op. 1 di Alban Berg, brano che segnò il clamoroso debutto europeo di Kovacevich, nel 1961 alla Wigmore Hall, per proseguire con la Sonata n. 31 op. 110 di Beethoven, parte di quella triade (op. 109, 110 e 111) che costituisce, assieme alle successive “Variazioni su un tema di Diabelli”, il testamento pianistico dell’autore. La Sonata n. 23 D.960 di Schubert, ultima sua composizione e vertice della sua scrittura pianistica, nonché uno dei cavalli di battaglia di Kovacevich, occupava poi tutta la seconda parte del concerto, completando così un climax in termini di durata temporale.

Con tocco nitido e articolazione chiara, la Sonata di Berg veniva rappresentata nei suoi caratteri più personali e apprezzabili, vale a dire nel suo contenuto emotivo, quella temperie indefinibile che presagisce a un qualcosa di nuovo, vivificato da una dinamica versatile (e su questo già le indicazioni in partitura sono eloquenti) e da mutazioni nella scansione del tempo; queste venivano realizzate dall’interprete con quella maestria che rivela una profonda familiarità col pezzo. La suggestione che questo brano realizza si basa su di un’espressività che si rivolge alla sfera emozionale, pur dall’interno di una struttura progettata fin nei minimi dettagli. Un’alchimia di passato e futuro, per così dire; è infatti un brano caratterizzato da forte unitarietà (sonata in un solo movimento, basata su tre temi), fedele al solco tracciato dal maestro Schönberg ma che non rompe ancora definitivamente col sistema tonale e che mantiene qualche altro legame con la tradizione, come il ritornello alla fine dell’esposizione. Nella Sonata op. 110 di Beethoven, Kovacevich puntava soprattutto a renderne lo storicismo sotteso, pensando più alla riassunzione dei principi barocchi nel comporre, una tematica costante in Beethoven e particolarmente presente in questa sonata (come lo è nelle “Variazioni Diabelli”), piuttosto che a un’esaltazione in direzione della prestanza strumentale. La conduzione della sonata era coerente con la poetica dell’interprete, impostata alla pacatezza e alla meditatività, assolutamente vincente per quanto riguarda il “Moderato cantabile molto espressivo”, un po’ meno efficace nell’”Allegro molto”. Magistrale l’”Adagio, ma non troppo” con la Fuga a concludere; qualche scala discendente non pulitissima nel primo tempo e l’utilizzo un po’ troppo generoso del pedale di risonanza nel secondo non incrinavano quella che si può definire nel complesso un’ottima interpretazione. In netta antitesi con il modello beethoveniano è l’estesa Sonata n. 23 di Schubert, scelta non a caso dall’artista, che se ne è dimostrato uno degli interpreti più interessanti. Kovacevich dimostrava sintonia ottimale con i caratteri che qui l’autore esprime diffusamente, il lasciarsi portare dall’ispirazione, l’essere svincolato da qualsiasi necessità (a grande distanza dalla logica stringente che sovrasta ogni gesto musicale nel sistema beethoveniano), il rifiuto dello stile magniloquente e il ricorrere diffusamente a quello liederistico. I materiali utilizzati sono in apparenza semplicissimi, come il primo tema del “Molto moderato”, di naturalezza disarmante, che viene dilatato apparentemente senza limiti, disturbato solo da un oscuro trillo nel registro grave, con il successivo ingresso del secondo tema, ancora più chiaro, anche questo di grande cantabilità, a completare un’atmosfera onirica nella quale il pubblico veniva trasportato seguendo la limpida esposizione di Kovacevich. E anche il secondo tempo si dipana con rarefazione fantastica, dove il motivo cantabile è di tono più mesto, un po’ ossessivo per l’ostinato della mano sinistra a reggerlo. Sono i primi due movimenti a dilatare notevolmente la durata del brano; lo “Scherzo” (con Trio) e il tono spensierato del conclusivo “Allegro non troppo” ci riportano in una dimensione più materiale e conducono rapidamente al commiato. Con lo squillante epilogo di questa immensa partitura (di durata superiore ai 40 minuti) Stephen Kovacevich poneva il sigillo su una prova fatta soprattutto di consapevolezza, ma che non si negava a episodi vissuti sul momento, espressi con nitore estremo e senza alcuna affettazione. Le acclamazioni della sala fruttavano, fuori programma, la “Sarabanda” dalla Partita IV (BWV 828) di Johann Sebastian Bach.