Sfoggiare lo splendore

di Mario Tedeschi Turco

Fa tappa a Verona, per l'inaugurazione del Settembre dell'Accademia, la Rundfunk-Sinfonieorchester di Berlino diretta da Vladimir Jurowski. Più di Wagner e Mahler, in cui splende in massima evidenza la qualità dell'orchestra, convince l'interpretazione di Bartók con la formidabile solista Vilde Frang.

VERONA, 7 settembre 2022 - Ha preso il via nella serata di mercoledì 7 settembre la XXXI edizione del «Settembre dell’Accademia», Festival Internazionale di musica ospitato al Teatro Filarmonico di Verona e ideato dal Presidente dell’antico sodalizio, Luigi Tuppini. Il primo concerto ha visto la Rundfunk-Sinfonieorchester di Berlino diretta da Vladimir Jurowski con la violinista Vilde Frang; in programma il Preludio del Tristan, il Concerto per violino n. 1 di Bartók e la Sinfonia n. 5 di Mahler, in una serata dunque impegnativa assai per la compagine berlinese, chiamata a un tour de force tecnico e interpretativo non da poco, oltre tutto da variare in relazione ai brani per approccio e organico. Come bere un bicchier d’acqua, viene da dire: la compagine è compatta, coesa, le sezioni integrate organicamente in un respiro comune, le prime parti – specie gli ottoni – magnifiche per precisione, intonazione, tornitura di suono. Un’orchestra di scintillante virtuosismo, che in occasione di una tournée evidentemente tiene a farlo notare: bene dunque, ma magari non benissimo.

Prendiamo il Preludio del Tristan di apertura, in una versione da concerto che termina con una breve sezione del Liebestod: roccioso, magniloquente, gli archi opulenti nel suono che avvolge, i clangori dei fiati del pari, un puro suono davvero maestoso. Ma decisamente troppo ‘muscolare’, in fondo freddo, privo di quel cupio dissolvi che ne innerva i sei Grundthemen, specie quello detto «dello Sguardo»; tendenzialmente uniforme poi nella dinamica e nell’agogica, così che i contrasti tragici tra crescendo e diminuendo o tra lungo e breve se ne sono andati via con molta retorica e poca poesia. La tendenza a creare il bel suono assoluto ha anche investito la Quinta sinfonia mahleriana, che avremmo desiderato più accesa nei contrasti soprattutto nella poderosa Trauermarsch d’inizio. Molto bene invece è riuscito l’Adagietto, proprio in forza del sostanziale distacco sentimentale messo in opera da Jurowski in tutto il concerto: solo nitore strumentale in luogo delle svenevolezze sempre dietro l’angolo, con questo brano, e dunque una lettura strutturale sì, ma anche piena del pathos che Mahler scrive letteralmente nella semplicità della partitura. E ancora di esemplare precisione (e di effetto epico a tutto tondo) è stato l’attacco dell’Allegro giocoso finale, con il dialogo tra fagotto, oboe, corno e clarinetto, il fugato successivo e la ripresa del corale del secondo movimento, giustamente restituito con rilievo giubilante che ne ha rilevato il senso di vittoria, magari momentanea, conclusivo. Jurowski e la sua orchestra, insomma, ci sono sembrati un’eresia di bravura, quanto a tecnica, ma un bel po’ lontani dal mondo poetico di Wagner e non del tutto in sintonia con quello di Mahler, dalle lacerazioni oltreumane del primo e dalle fantasmagorie contrastive, demoniche, del secondo.

Non così per fortuna in Bartók, anche grazie alla formidabile solista, che ha tutti i caratteri che trovi nella fuoriclasse, a partire da una musicalità intensa, che fa scaturire dal legato del violino non solo un volume fonico tale da fronteggiare una massa orchestrale, come detto, particolarmente rotonda, ma ne trae ad ogni passaggio sensibilità e logica, in una cantabilità idiomatica ricca di tutte le sfumature che questo Bartók giovanile, perduto e recuperato, ha messo in testo. Insinuante nel movimento lento, energica in quello veloce, Frang ha sostanzialmente replicato la sua interpretazione del brano consegnata al disco nel 2018 con Mikko Franck e l’orchestra della radio francese, immacolata nella tecnica trascendentale con in più un abbandono lirico che solo dal vivo si può veramente apprezzare. Jurowski, come dicevamo, con il 900 è più a proprio agio, e il suo controllo dell’ensemble in relazione alla solista è stato ideale: anticipo costante del braccio destro a dettagliare plasticamente i ritmi variati bartokiani, sinistro ‘espressivo’ usato con estrema parsimonia funzionale, attitudine del corpo vigile, scattante eppure perfettamente controllata: sono tutte qualità di sommo rilevo di un direttore di prima grandezza, che appunto tra mezzo a una scrittura che richiede il massimo della norma e della regola trova il suo territorio ideale, eguagliato oggi da pochi e forse superato da nessuno. Per le ultime cattedrali della decadenza europea, invece, forse è meglio rivolgersi altrove.