Homo factus est

di Luca Fialdini

Il concerto di apertura della XXI edizione di Anima Mundi dedicato alla Missa solemnis, il capolavoro sacro di Ludwig van Beethoven

PISA 9 settembre 2022 – Una delle partiture più impervie per gli interpreti, uno dei vertici della musica occidentale: la Missa solemnis di Ludwig van Beethoven è l’opera protagonista del concerto di apertura della XXI rassegna internazionale di musica sacra “Anima Mundi”. Un titolo che raramente appare nei programmi concertistici, ma negli ultimi anni sta riscontrando una relativa diffusione e il festival pisano si iscrive nel novero dei temerari che lo inseriscono nel proprio palinsesto. Beninteso, per affrontare la Missa beethoveniana bisogna essere davvero temerari: un’intricata trama intessuta di simbolismi, un’architettura in continua evoluzione che origina da cellule e motivi, nelle parole di Riccardo Muti confrontarsi con questa composizione «è come scalare l’Everest». Ebbene in questo caso la scalata non poteva avere esito migliore.

I complessi del WDR Rundfunkchor, del NDR Vokalensemble e della NDR Radiophilharmonie Hannover sono straordinari e si propongono al pubblico completamente amalgamati tra loro in un equilibrio che non conosce oscillazioni, ma ciò che colpisce ancor di più è il potente afflato spirituale che rappresenta la cifra dell’esecuzione stessa. In questo contesto i quattro solisti rappresentano una nota di pregio: prima ancora dei meriti individuali bisogna riconoscere il loro merito nel metabolizzare una scrittura vocale atipica, in cui i soli sono trattati come strumenti ma integrati direttamente negli interventi del coro o presentati tutti e quattro insieme in varie combinazioni. In poche parole, in queste pagine non troverete l’aria del tenore! Il soprano Susanne Bernhard, timbro chiaro ma non esile, si distingue per i bei filati in special modo nell’Agnus Dei, mentre il contralto Stefanie Irányi presenta un’interpretazione più drammatica, buoni i legati; il tenore Matthew Swensen è dotato di un timbro meraviglioso e squillante, pieno, che gli consente di essere facilmente riconoscibile anche nei pertichini del coro e negli assiemi, il tutto unito a un efficace controllo dell’emissione e a un fraseggio accurato. Swensen condivide queste ultime caratteristiche con il baritono Arttu Kataja, che però perde un po’ di smalto nel registro grave (sol e fa sotto il pentagramma), sarebbe stato forse più appropriato un basso; ad ogni buon conto Kataja brilla negli incisi cantabili e dimostra grande sicurezza nei complicati passaggi contrappuntistici.

Alla testa dei tre gruppi il britannico Andrew Manze e la sorpresa di vedere uno specialista del barocco alle prese con l’ultimo Beethoven è cancellata dalla grandezza del risultato: sotto la sua bacchetta i due gruppi corali raggiungono colori di intenso misticismo, mentre l’orchestra si trasforma in un grande organo dove gli archi – dal suono così rotondo e sostenuto – sono il principale e i fiati le ance. L’analogia non è di pura circostanza dato che lo stesso Beethoven in punti significativi della partitura ricerca apertamente sonorità che richiamino gli strumenti da chiesa, ad esempio nel Preludium posto tra l’Osanna e il Benedictus dove l’impasto di flauti, clarinetti, fagotti, viole e violoncelli divisi e contrabbassi ricorda molto da vicino certi registi dell’organo, per non dire il suono dell’harmonium tout court. Nell’interpretazione il direttore dimostra un’interiorizzazione notevole della partitura in cui si dà voce alla monumentalità insita nella composizione stessa ma si elimina ogni superflua grandeur (e per inciso si presta attenzione anche a non esagerare con le dinamiche adeguandosi alla pericolosa acustica della Cattedrale); il forte con cui si apre il Kyrie non è un impatto ma piuttosto è marcato e ben appoggiato, ad esempio.

L’aspetto più interessante però è senz’altro la conduzione delle macrostrutture. Uno dei motivi per cui la Missa solemnis è tanto temuta è proprio per la sua grande complessità interna, dove generale e particolare convivono in un insolito – per non dire unico – rapporto di coesistenza: i brani più circoscritti come il Kyrie sono percorsi da misteriose correnti, mentre i più estesi come il Gloria e il Credo presentano una natura composita e sono attraversati da episodi frammentari e apparentemente incoerenti in cui il denso contrappuntismo rischia di far perdere la bussola, eppure in ogni componente della Missa esistono fortissime linee di continuità ora più evidenti, ora quasi invisibili. La grandezza di Manze consiste proprio nel riuscire nel far emergere con un'intelligenza sottile e luminosa una solida coerenza persino nelle sezioni più eterogenee, ponendo il focus sulle pietre angolari utilizzate da Beethoven per edificare la propria cattedrale e allo stesso tempo mettendo in luce la grandiosa umanità che permea la scrittura del compositore tedesco. Basti pensare al modo in cui viene sottolineata la frase «et incarnatus est» e al modo in cui si ribadisce «homo factus et», la celebrazione della congiunzione della natura umana e di quella divina. Gli urti, le disorganicità, la luce, l'umanità, il dolore, il senso del divino, ogni singolo aspetto fa parte del canto di Beethoven in cui il compositore svela il suo messaggio mettere in musica l'uomo, con le sue ipocrisie e le sue grandezze, il suo spirito teso al divino e le sue contraddizioni.