Intorno all'orchestra

di Mario Tedeschi Turco

Pienamente appagante la prova della Philharmonia Orchestra nel terzo appuntamento del «Settembre dell’Accademia» al Filarmonico di Verona. La qualità del complesso strumentale supera la prova impeccabile ma poco interessante della violinista Sayaka Shoji e perfino il gesto stravagante del direttore Santtu-Matias Rouvali.

VERONA, 15 settembre 2022 - Terzo appuntamento del «Settembre dell’Accademia» al Filarmonico, e terza serata con solista al violino, dopo i concerti con Vilde Frang e Joshua Bell: la Philharmonia Orchestra diretta da Santtu-Matias Rouvali arriva con la giapponese Sayaka Shoji e il Concerto per violino e orchestra n. 2 di Prokof'ev, uno dei brani più rappresentativi del genere composti nel primo cinquantennio del ‘900, sebbene, nell’ambito della produzione concertante del suo autore, assai meno geniale e innovativo dei concerti per pianoforte. Si tratta infatti di un’opera che, a fronte di una tensione costruttiva non aliena da soluzioni inedite (specie nel terzo movimento), riposa su un concetto formale legato eminentemente al mélos, al canto libero del solista in equilibrio dialettico con la massa orchestrale. Da questo punto di vista, dato atto alla Shoji di impeccabile intonazione e di un’agilità alla mano sinistra ugualmente immacolata, carattere, slancio, pathos, energia, tutto è parso navigare nell’ambito di una non più che quieta professionalità, nell’Allegro moderato di inizio anche segnata qua e là da certa metronomica piattezza che ha inciso negativamente sull’acceso lirismo portato in primo piano da tanti solisti (ricordiamo Lisa Batiashvili quattro anni fa, in questa stessa sala, con Gilbert e la Staatskapelle di Dresda, di un’urgenza espressiva a temperatura infinitamente superiore). I momenti migliori sono venuti nell’Allegro ben marcato conclusivo, tornito nel suono complessivo con l’orchestra, agitato e ruvido nella ricorsività variata del tema d’impianto, in cui le dissonanze hanno ricevuto il giusto risalto contrastivo rispetto all’atmosfera elegiaca dei primi due movimenti.

La Philharmonia, nonostante taluni eccessi di volume nel primo movimento, è risultata compagine di elevata qualità in ogni parametro, la qual cosa è parsa ancor più evidente nella seconda parte del concerto, con la Seconda sinfonia di Sibelius. Evidente secondo noi il risultato tecnico, ma piuttosto difficile valutare l’apporto del direttore: Rouvali ha un gesto molto ampio, piuttosto lezioso negli svolazzi continui di entrambe le braccia, ma dalla nostra posizione in platea, perfettamente centrale, non gestiva alcun anticipo né d’impulso né di colore, assecondando sostanzialmente l’orchestra che – ripetiamo: dal nostro punto di osservazione – non lo guardava quasi mai. Molto si osservavano tra loro le prime parti degli archi, in una compattezza di suono globale irreprensibile e un piglio espressivo comune assai deciso, tanto che qualche rischio si è corso, qua e là, di sbilanciare l’equilibrio dinamico rispetto ai legni. Quindi: o l’intesa tra direttore e orchestra, ottenuta con un lavoro di concertazione e prova di eccezionale rigore, è tale da poter lasciar scorrere la musica in modo automatico, oppure la storica orchestra ha un tale grado di affiatamento di per sé che potrebbe fare a meno di qualunque direttore. Non potendo rispondere alla domanda, ci concentriamo sulla riuscita, che è stata ottima. I movimenti della Sinfonia richiedono un calcolo e una resa attentissima degli scarti agogici previsti in partitura: quattro i movimenti, ma ventotto sono le indicazioni diverse relative allo scorrere del tempo, undici delle quali solo nel movimento lento, attraverso le quali Sibelius disegna una spazializzazione sonora altamente idiomatica, che lo rende autore sostanzialmente autonomo rispetto al sinfonismo contemporaneo. La Philharmonia e Rouvali hanno ottenuto in ogni tassello rapporti timbrici, decorso temporale in variazione e dettagli armonici - e dunque quello spazio di cui sopra - in modo da porre in primo piano non monumentalità stentorea ma una poderosa, tagliente qualità precipua, che ha separato giustamente la scrittura di Sibelius dal tardo romanticismo russo o tedesco, cui un po’ troppo spesso il compositore viene annesso d’ufficio esecutivo. Insomma, un Sibelius non in rassicurante cinemascope e technicolor, ma invece tortuoso, inquieto, diresti problematico, come ci pare debba essere la sua cifra estetica pienamente novecentesca.

Se qualche piccolo dettaglio, nell’esecuzione al Filarmonico, forse potrebbe essere criticato (l’oboe pastorale nel Vivacissimo è scappato un po’ via; nel secondo tema del quarto movimento gli archi e i legni non hanno trovato perfetta omogeneità fonica, come sopra accennato), l’impatto complessivo è stato pienamente appagante: segno che il bizzarro volteggiare danzante di Rouvali potrebbe anche essere un codice espressivo segreto con i suoi strumentisti, che sfugge allo sguardo del pubblico di un unico concerto.