I tre moschettieri della Nona

di Alberto Ponti

La Nona di Beethoven trascritta da Liszt e suonata da Baglini: sulla sinfonia Corale e la triade di compositori e pianisti verte l'ardimentoso concerto proposto da MiTO Settembre musica

TORINO, 21 settembre 2022 - Ludwig van Beethoven, Franz Liszt e Maurizio Baglini sono i nomi attorno ai quali ruota una Nona Sinfonia al calor bianco condensata tra gli 88 tasti del pianoforte

Senza scendere nel patologico, molte grandi opere d’arte, musicale e non, paiono rivelare una vena di follia o almeno di temerarietà necessaria al loro concepimento e talvolta anche alla loro esecuzione. Se Beethoven già con la Settima Sinfonia aveva suscitato dubbi sulla propria lucidità mentale in alcuni ascoltatori illustri come Carl Maria von Weber, con la Nona l’effetto di spiazzamento non dovette certo essere inferiore nel pubblico dell’epoca, nonostante l’enorme successo immediato dello Scherzo (come d’altronde accadde con l’Allegretto della Settima). Pure Franz Liszt, dominatore del pianoforte ottocentesco, meditò a lungo sull’opportunità di affrontare la partitura a coronamento della trascrizione integrale del corpus sinfonico del genio di Bonn. Alla fine, da amante delle sfide, l’ungherese non si tirò indietro e nacque così una delle opere più impegnative da presentare in concerto per un solista: un’ora e un quarto di musica ininterrotta, concentrando nello spazio della tastiera l’organico maggiore che nel 1824 fosse mai stato immaginato per un lavoro orchestrale, senza contare i quattro cantanti e il coro.

Ancora oggi, nel 2022, eseguire in pubblico la Nona in modalità Beethoven/Liszt potrebbe apparire per tutti questi motivi impresa ardita. A salire sul palcoscenico è però Maurizio Baglini, che ha fatto del brano uno dei propri cavalli di battaglia. Siamo al Teatro Provvidenza, periferia ovest di Torino, nato come salone adiacente all’omonima chiesa, a testimonianza che, dove oggi ci sono gli edifici tutti uguali figli del boom economico di mezzo secolo fa e un tempo sorgevano fumose fabbriche e vecchie cascine, gli eroici avamposti della cultura furono quelli organizzati dai sacerdoti. L’iniziativa dell’attuale edizione di MITO di portare grandi nomi in simili spazi, molto diffusi nelle zone più esterne dei nostri grandi centri urbani, è lodevole e i risultati si vedono. La sala è piena fino all’ultimo posto e si prende al termine gli elogi dello stesso pianista: non si può affrontare il mostruoso spartito privi della collaborazione di un pubblico attento e rispettoso.

L’interpretazione di Baglini è esuberante e virtuosistica quanto richiede il dettato lisztiano che rispetto all’originale ci mette molto del suo, e non potrebbe essere altrimenti. La cura del suono evidenzia una ricerca e uno studio approfondito nel produrre analogie e corrispondenze con il timbro degli strumenti dell’orchestra che tutti abbiamo nelle orecchie in una partitura tanto celebre. In questo senso il tocco del solista è pienamente ‘sinfonico’: tra il rullare dei bassi dello straordinario Allegro non troppo, un poco maestoso pare di udire il respiro dei legni nel secondo tema, la risposta del corno, le discese cromatiche degli archi dirette verso le inquietanti profondità delle quinte vuote d’esordio. Policromo, mutevole nel fraseggio e nell’espressione è il Molto vivace dove Baglini effettua il ritornello senza creare alcun senso di pesantezza, attaccando con forza unita a grazia la ridda di note staccate e ribattute, giocando col pedale quel tanto che basta ad amplificare la forza di un discorso già compiuto per l’inesauribile invenzione beethoveniana. Nei punti in cui Liszt deve inventare soluzioni differenti per schivare la mancanza del tenuto tipico degli strumenti a fiato, l’esecutore sfoggia autentiche magie timbriche: il re alla mano destra da cui scaturisce il Trio in tempo Presto non fa rimpiangere, nella sua fugace e struggente apparizione, tra il moto del controcanto alla sinistra, lo squillo dei tromboni nel registro acuto dell’originale. Così sarà anche per l’episodio del ‘Seid umschlungen’ del finale, con un magistrale, incessante legato di semiminime e crome mutuato dalla parte degli archi a supplire l’alternanza di minime e semibrevi in contrappunto di legni, tromboni e coro. Dopo il sublime Adagio molto e cantabile, cesellato con nobiltà d’espressione e sentimento, il vasto movimento conclusivo, che sulla carta parrebbe il maggior rischio dell’intera operazione, si apprezza al modo di un pezzo in sé compiuto, con un’autonoma personalità rispetto alla partitura sinfonico-corale, prodotta dal venire alla luce di linee normalmente nascoste dall’intreccio vocale.

Si perdonano a Baglini veniali irruenze perché, in fondo, va restituito a Liszt ciò che è di Liszt, nella ricreazione di un testo che, mantenendo fedeltà allo stile di partenza, non rinuncia per larghi tratti all’esibizione spettacolare di puro edonismo sonoro, in grado di soggiogare la platea e liberare al termine l’ovazione fragorosa e sfrenata, suggellata da altre due trascrizioni d’autore: ancora Liszt per il Galop del rossiniano Guillaume Tell e Wilhelm Backhaus con la serenata dal Don Giovanni di Mozart acquerellata in punta di dita.