Il sorriso e il dramma

di Antonio Ponti

Il ritorno di James Conlon alla testa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale coincide con la magistrale esecuzione di una tra le più enigmatiche e grandiose pagine del Novecento quale la Quarta sinfonia di Šostakóvič, accostata alla brillante sinfonia ‘Parigi’ di Mozart

Torino, 7 dicembre 2022 - Anche a tralasciare la grande distanza temporale tra le due composizioni, esiste in apparenza poco o nulla in comune tra la sinfonia ‘Parigi’ di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) e la Quarta di Dmitrij Šostakóvič (1906-1975), se non l’abbastanza inconsueta struttura in soli tre tempi. Eppure l’inedita accoppiata, scelta per il primo concerto della stagione sotto la guida di James Conlon alla testa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, di cui è stato direttore principale fino al 2020, esprime al meglio la versatilità di una bacchetta da annoverarsi tra quelle di eccelso livello sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico. Conlon, che il pubblico torinese ha avuto modo di apprezzare nelle passate stagioni, con il tempo ha acquistato, accanto alla perfetta scansione e alla consueta brillantezza del suono che gli è sempre stata propria, una costante profondità di visione e di penetrazione nei segreti di partiture sulla carta anche assai ostiche, senza avere nulla da invidiare ai più celebrati maestri degli ultimi decenni.

Composta durante la tragica tournée parigina del 1778 che fu fatale alla madre dell’artista e vide nondimeno la nascita di un impressionante numero di capolavori, la Sinfonia in re maggiore K 297 è ambiziosa e di organico esteso per l’epoca, con trombe, timpani e perfino i clarinetti riutilizzati da Mozart in seguito solo per la terzultima delle sue sinfonie, la K 543, prima della miracolosa triade dell’estate 1788. La tonalità di re è d’altronde nell’autore spesso associata a una certa monumentalità. Prova ne sono, ancora tra le sinfonie, la ‘Praga’ e la ‘Haffner’, e poi l’omonima grandiosa serenata ‘Haffner’, il ‘Krönungskonzert’ per pianoforte e orchestra…

La direzione di Conlon, nell’ambito di un volume sonoro pieno senza tuttavia arrivare a sopraffare la filigrana cameristica di numerosi passaggi, rende giustizia al desiderio di Mozart di non sfigurare e colpire il pubblico parigino, scavando allo stesso tempo nel rovello contrappuntistico che conduce questo pezzo, soprattutto nel finale Allegro, a esiti tutt’altro che scontati e di facile effetto. L’elasticità degli archi è evidente fin dall’esordio, nella risposta in piano al perentorio gesto ascendente di un’intera ottava che apre a organico completo l’opera, e sostiene tutto lo scintillante gioco di legato e staccato alla base dell’elaborato primo movimento Allegro assai. Gli interventi dei fiati sono sapidi e leggeri ma acquistano all’occasione consistenza, come nel crescendo rossiniano ante litteram al termine dell’esposizione e, nel centrale Andantino in 6/8, insinuano una delicata aura ombrosa tra le pieghe di un sol maggiore dove il sorriso dello stile galante pare cedere il passo in più di un’occasione a una sensibilità già quasi romantica.

Un’attesa particolare era rivolta alla Sinfonia n. 4 in do minore op. 43 (1934-36) di Šostakóvič, un lavoro davanti al quale è difficile rimanere indifferenti, non solo per le dimensioni e l’enorme organico richiesto (110 esecutori, con ben 2 ottavini, 6 clarinetti, 8 corni e una vastissima compagine di percussioni), ma anche per l’alta densità della scrittura e concentrazione drammatica che ne fanno un autentico monumento del Novecento musicale. La storia è molto nota: composta a metà degli anni Trenta, la sinfonia fu ritirata dalla circolazione per iniziativa dello stesso autore che, dopo la famosa critica sulla Pravda a lui indirizzata nel 1936 dopo una ripresa della Lady Macbeth del distretto di Mcensk, non osò proporre in pubblico una pagina considerata troppo radicale e rivoluzionaria nel linguaggio. L’esecuzione ufficiale in pubblico avverrà solo nel 1961. Mai Šostakóvič era stato così sincero nel dare spazio e sfogo alla propria immaginazione creativa: in ultima istanza egli rimane un pessimista visionario che, spinto da una viva volontà razionale, cerca la redenzione con la forza dell’arte, innescando una tremenda battaglia fra l’intelligenza umana in grado di prevedere la sconfitta finale e la lusinga dell’utopia di raggiungere un’armonia impossibile tra uomo e mondo. Non è un caso che la Quarta abbia richiamato fin dal suo apparire similitudini con l’universo narrativo di Mahler. Ne sortisce un’opera innervata da contrasti, ora macroscopici ora sottili, resi da Conlon con indubbia abilità attraverso un gesto netto, preciso, a volte nervoso in superficie ma sotto il quale si cela un dominio assoluto della materia compositiva.

Mahleriano per concezione e sviluppo è in effetti l’immenso primo tempo, Allegretto poco moderato. Conlon regge con mano sicura il timone di un eloquio dove inquietanti esplosioni dell’intera orchestra, in bilico tra il ghigno caricaturale e lo sfogo isterico, sono alternate a episodi di sapore più raccolto dove vengono chiamati in causa singoli gruppi di strumenti. Il notevole equilibrio raggiunto dalla lettura del direttore statunitense si estrinseca in una varietà sonora e timbrica ad ampio spettro in cui, nei fortissimo, è evitato il puro rumorismo così come, in certi sussurri striscianti dei legni e dei contrabbassi, nei gridi strozzati sul nascere degli ottoni con sordina, sono sempre avvertibili e chiare, nelle relazioni costruttive e armoniche, le note una ad una, pur carezzando i territori del silenzio. Occorrerebbe elogiare ogni componente dell’OSN Rai, il primo violino Alessandro Milani, il flauto di Dante Milozzi, lo straordinario fagotto di Francesco Giussani, per non citare, senza voler rendere un’ingiustizia agli altri professori, che tre prestazioni superlative nell’ambito di un’eccellente prova d’insieme. Affascinante nel suo disegno continuamente sfuggente, breve intermezzo fra i torsi colossali ed incandescenti dei due movimenti estremi, il Moderato con moto è uno scherzo sui generis, eseguito in un vortice crescente di tensione destinata a sciogliersi nella misteriosa e stupefacente coda col ticchettio delle percussioni, la cui campitura Šostakóvič riprenderà nella sua quindicesima e ultima sinfonia.

Il finale, Largo-Allegro, vera e propria sinfonia nella sinfonia, si nutre ancora una volta di violente contrapposizioni all’interno della tavolozza orchestrale, scandite da Conlon con vivo senso della drammaticità e restituendo agli ascoltatori lo stupore enigmatico e metafisico di un epilogo tra i più alti della letteratura musicale. In un capolavoro dove i particolari sono dilatati all’inverosimile, Šostakóvič riesce infine a dilatare il senso del tempo. Dopo le sferzanti perorazioni ripetute, sempre arrestate su una stridente dissonanza irrisolta fino a un accumulo di apprensione quasi insostenibile (e qui, unico piccolo appunto, nell’interpretazione torinese si corre un po’), il gigantesco pedale di tonica di oltre 200 battute si arresta di fronte a un silenzio ancora pulsante in un progressivo sgretolamento del suono con pochi eguali nel repertorio.

Quando finalmente le braccia del maestro discendono si libera un applauso che per intensità ed entusiasmo non lascerebbe a intendere la mancanza di un discreto numero di posti vuoti tra la platea, la balconata e la galleria dell’auditorium ‘Toscanini’. Per chi non c’era, un’occasione mancata; per i presenti, insieme al grande ritorno di James Conlon sul podio di via Rossini, la conferma che lo slogan della stagione 2022/2023 ‘Una sontuosa normalità’ è azzeccato.