Cent'anni di beatitudine

di Sergio Albertini

Meritoria ripresa a Cagliari dell'opera di Refice. Ottima la concertazione di Giuseppe Grazioli, mentre la regia di Leo Muscato si ferma a un'essenziale illustrazione da santino.

CAGLIARI, 28 gennaio 2022 - Sono cent'anni esatti. Perché fu proprio cent'anni fa che Refice, sacerdote e compositore, innovatore nella musica sacra, riesumatore del canto gregoriano, autore di numerosi oratori e messe, vede offrirsi, nel 1922, cinquantaquattro cartelle dattiloscritte: il libretto di un'opera, Santa Cecilia. L'entusiasmo del compositore si trasformò subito in stesura musicale; l'intenzione era quella di proporre l'opera nell'Anno Santo del 1925, ma numerosi ostacoli posposero la messa in scena solo nell'Anno Santo Straordinario del 1934, dopo aver rimosso dal titolo il termine “santa”, definendola una rappresentazione sacra in tre atti con un'intenzione educativa e rafforzativa dell'idea religiosa nelle masse. Dopo quattro anni la Cecilia raggiunge la centesima rappresentazione, per cadere pian piano nell'oblio. Il libretto, di gusto dannunziano con uso di parole desuete o arcaiche, è di Emidio Mucci, autore che operò molto coi musicisti del suo tempo, curando anche versioni ritmiche in italiano di varie opere straniere come Giovanna d'Arco al rogo di Claudel-Honegger o il Cristoforo Colombo di Claudel-Milhaud. Il tandem Mucci-Refice produsse una notevole collaborazione che, iniziata con Cecilia (1922), proseguì col Trittico francescano (1925), Ombra di nube e altre liriche, La Samaritana (1935), Margherita da Cortona (1936), L'Oracolo (1944), Lilium Crucis (1949), Il Mago (1952).

La storia esecutiva dell'opera ha visto come protagonista grandissime interpreti, dalla prima rappresentazione al Teatro dell'Opera di Roma (15 febbraio 1934) con Claudia Muzio, ai tempi il soprano più celebre della scena mondiale, alle successive edizioni: ancora Roma (nel 1942 con Augusta Oltrabella, Taddei, Tajo, Gobbi, diretta da Serafin; nel 1950, con Clara Petrella), a Napoli (1953, con Renata Tebaldi), a Rio de Janeiro (1954, sempre con la Tebaldi e alla presenza del compositore, che morì durante le prove), nel 1976 (in una versione registrata, abbreviata a 73 minuti) con Renata Scotto, nel 2008 al Teatro Avenida di Buenos Aires (con Adelaida Negri protagonista), nel 2013 (in forma di concerto) nella Cattedrale di Monte-Carlo (registrata in cd con Denia Mazzola protagonista).

Il Teatro Lirico di Cagliari, che tra gli enti lirici italiai si caratterizza per una particolare predilezione, nelle sue inaugurazioni di stagione, verso il repertorio operistico italiano del Novecento - basti qui ricordare le inaugurazioni dedicate a Respighi (La campana sommersa nel 2016, La bella dormente nel 2017), alla Turandot di Busoni (2018), Palla de' Mozzi di Gino Marinuzzi (2020) – ha proposto per il 2022 proprio Cecilia, l'azione sacra in tre episodi e quattro quadri di Licinio Refice (Patrica, 1883 – Rio de Janeiro, 1954) in prima esecuzione italiana in tempi moderni.

Il nuovo allestimento cagliaritano è una ennesima scommessa vinta, nonostante la debolezza del libretto, drammaturgicamente inerte. I pregi indiscussi della partitura sono stati evidenziati dalla direzione vigile e partecipe di Giuseppe Grazioli, dallo splendore sinfonico che guarda a Respighi per tavolozza timbrica, agli slanci melodici che rievocano certo Puccini (quello soprattutto della Fanciulla del West, 1910), con una equilibrio perfetto tra fossa e palcoscenico (il canto sembra aver assorbito la lezione di Zandonai e della sua Francesca da Rimini,1914). L'orchestra del Lirico affronta la musica di Refice con raffinata eleganza sin dal preludio, con quel sostegno ritmico dei timpani, quel respiro nei tempi all'apparizione dell'angelo, con un progressivo crescendo d'impronta straussiana. E quale trasparenza erotica, a tratti orgiastica, nel duetto tra Valeriano e Cecilia (“E m'affonda nell'estasi”)! Grazioli restituisce appieno la partitura di Refice al Novecento europeo (anche se, vale ricordarlo, quel novecento europeo in quegli stessi anni, aveva avuto tra il '30 e il '34 Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Weill, Da una casa di morti di Janáček, Moses und Aron di Schönberg, la Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Šostakóvič).

La protagonista, Cecilia, è stata Martina Serafin; artista di altissima caratura, di indubbia presenza scenica e di ottima tecnica (nel duetto “È lieve stormire di fronda” sostiene uno splendido, lungo fiato sulla frase “plaghe ignorate”), ma non va oltre una generosa 'lettura', anche in quella che è (relativamente) la pagina più celebre dell'opera, “Oh dolce ascoltare”, dove gli accenti mistici del martirio avrebbero avuto bisogno di colori e abbandoni di maggiore efficacia. Resta comunque una prova che, probabilmente, sarà stata meglio messa a fuoco nel corso delle recite. Valeriano è Antonello Palombi, di cui si apprezza un declamato scolpito, una dizione chiara e tornita: al suo ingresso mostra una proiezione svettante sulle parole “ma gli Dei”, ricerca morbidezza su “arabeschi di danza”, smorza dolcemente su “il mio ritmo nel cuore”, ma procede, nel corso dell'opera, in una interpretazione stentorea e tonitruante, che solo in parte è nella scrittura vocale di Refice. Altra la classe di Roberto Frontali, che conserva una radice belcantistica nel doppio ruolo di Tiburzio e di Amachio; di serafico nitore gli interventi dell'Angelo affidati a Elena Schirru; ottima prova, vocale e scenica, di Alessandro Spina quale vescovo Urbano; nei ruoli minori, Christian Collia (un Liberto e un Neofita), che spicca per lo slancio nell'acuta tessitura del suo “Io la vidi”, e Patrizio La Placa (uno schiavo). Di Giuseppina Piunti nel ruolo della Vecchia Cieca c'è da ricordare l'uso (eccessivo) del registro di petto (“della vasca non giungeva”). Bella la prova del coro (tutti con regolare mascherina) preparato da Giovanni Andreoli, vero e proprio personaggio centrale dell'opera, trattato da Refice con una semplicità quasi arcaica, a volte in maniera omofona.

Lo spettacolo è forse eccessivamente lineare in troppi dei suoi aspetti, dovendo fare i conti con una vicenda difficile da 'attualizzare'. Di aspetto minimale, la scena unica di Andrea Belli (scrive sul programma di sala il regista di aver voluto una ambientazione scenica da Teatro Greco di Siracusa: per noi era solo un muro, molto simile a quello della Traviata di Willy Decker a Salisburgo) è circoscritta appunto da un alto muro bianco semicircolare con andamento parabolico che divide due piani d'azione: quello in basso, dove si svolgerà gran parte dell'opera, fino al martirio finale, e quello alto, luogo di processione notturna e del battesimo di Valeriano. Pochi ed essenziali gli elementi scenici: un letto con vello bianco ad evocare la prima notte (non consumata) tra i due sposi, una scala in legno (ad unire i due piani) ed un albero secco dai rami contorti per la scena delle catacombe, dune di sabbia (non perfettamente giunte nell'assemblaggio dei praticabili) per il terzo quadro. In questa dimensione 'realista' i costumi (di Margherita Baldoni) sembrano recuperati dai magazzini dei film peplum italiani degli anni Sessanta, con i romani in bianco e rosso, i patrizi con pettorali in simil-cuoio, il vescovo tra l'abate Faria e il mendicante di Cenerentola (quella di Rossini), i cristiani in bianco (le cristiane con velo sul capo, tranne Cecilia). Alla fine il risultato registico firmato da Leo Muscato è volenteroso, ma fa i conti con un coro perennemente immobile, una gestualità datata (dobbiamo ancora vedere un duetto come quello tra Valeriano e Cecilia che si svolge sulla ribalta, mano nella mano, che guardano gli spettatori in sala?), qualche sguardo rivolto al cielo che fa tanto santino nel libro di preghiera, gli effetto di fumo, la sfilata di torce. Una versione appena più elegante di una messa in scena tra volenterosi amici della parrocchia. Il momento migliore rimangono le tre visioni dell'Angelo, sospeso in cielo, tra un diradarsi di nubi e un bagliore di luci.

Luci a firma di Alessandro Verazzi giocate su vari cromatismi (dal giallo caldo al bianco algido ai raggi di sole all'alba); le proiezioni video (di Luca Attilii) sul fondo alto della scena si susseguono in forma didascalica (ora grano agitato dal vento, ora acqua in movimento – in concomitanza col battesimo di Valeriano -, ora braci ardenti - per il martirio di Cecilia) fino alle immagini finali (non perfettamente a fuoco) di opere raffiguranti Santa Cecilia custodite nella Cattedrale di Cagliari. Il pubblico ha applaudito con entusiasmo e convinzione; purtroppo era un pubblico che occupava circa un terzo dei posti disponibili. Opera desueta? Crisi economica che taglia le spese per gli abbonamenti? Fastidio nel dover restare due ore e mezza con una (indispesabile) FFP2 ? Non so. Di certo, l'onda lunga di una crisi pandemica, e non solo, non accenna a scemare, tuttavia la stagione del Lirico offre anche quest'anno un repertorio interessante (L'elisir d'amore, Ernani, La sonnambula, Manon Lescaut, West Side Story e il Romeo e Giulietta di Prokof'ev) che meriterebbe maggior riconoscimento da parte dei vecchi abbonati.