Superoberto Devereux

di Giuseppe Guggino

Nella ripresa palermitana del Devereux donizettiano nel fortunato spettacolo di Alessandro Talevi si impone la classe e la tecnica di John Osborn nel ruolo eponimo. Meticolosa la ricerca di colori proveniente dal podio di Roberto Abbado, che però difetta per istinto teatrale.

Palermo, 20 marzo 2022 - Si titola Roberto Devereux ma si legge Elisabetta I Tudor. E sebbene il personaggio romantico maschile benefici della sua topica scena della torre, oltre che di vari duetti, non v’è ombra di dubbio che la drammaturgia donizettiana sia fortemente sbilanciata a favore della regina tradita, sospinta alla follia. Più controverso e fellone nella storia reale che non nella prospettiva amorosa di primo ottocento, per riflesso contingente delle guerre d’oggi, il Roberto di John Osborne torna ad essere perno dell’opera in scena al Teatro Massimo di Palermo. Senza nulla togliere alla valida Yolanda Auyanet nei panni della nubile Regina d’Inghilterra – subentrata in corsa nella produzione, in sostituzione di altra collega – che mostra di saper amministrare con buona duttilità uno strumento non particolarmente privilegiato dalla natura, è il tenore americano a dominare l’intera serata, producendosi di un’esagerata sequela di prodezze tecniche, dal canto a mezza voce perfettamente sostenuto, fino a tanto fantasiosi quanto vertiginosi spunti di fraseggio. Eppure l’indubitabile magistero del lenocìnio vocale nuoce talvolta alla genuinità del porgere, in un ruolo storicamente appannaggio di vocalità più generose per timbro ed espressività che non per ortodossia tecnica, da Vincenzo La Scola a Vincenzo Bello. Sicché, in questa calcolata lettura sublimazione del belcanto, il volume è sempre raffrenato, quasi intrappolato, sia nei momenti di confronto con la veemente Regina, ma anche nei duetti con l’amante Sara, impersonata dalla debordante Vasilisa Berzhanskaya. Il giovane mezzosoprano di bella pasta timbrica, forte di un sonoro registro di petto e ben sfogata in alto, pur capace di pianissimi impalpabili che sorprendono sin dal cantabile di sortita, sbilancia però il personaggio più sulla femme fatale, a discapito di una più complessa sfaccettatura, costantemente sospesa fra passione amorosa, rimorso e pentimento.

Corretto e misurato il Nottingham di Davide Luciano, sconta una certa genericità stilistica che rende il cimento non particolarmente entusiasmante.

A completamento della distribuzione vanno il buon Cecil di Carmine Riccio e il plausibile Gualtiero di Ugo Guagliardo.

Molto buona la prestazione del Coro preparato da Ciro Visco, mentre non altrettanto impeccabili le masse orchestrali assecondano la nervosa bacchetta di Roberto Abbado che sollecita una continua ricerca di fraseggi non scontati sin dalla sinfonia iniziale. Benemerita oltre che per il recupero di tale pezzo (scritto in un secondo momento per Parigi) anche l’assenza di tagli né nei da capo né nelle strette, la direzione stenta però a tramutare l’accurato lavoro su agogiche e dinamiche in atmosfere, difettando per quella bruciante teatralità à la Gavazzeni che la drammaturgia a tinte fosche del titolo richiederebbe. Eppure sembra sollecitarla l’inquietante cifra noir delle scene disegnate da Madeleine Boyd per il fortunato spettacolo della Welsh National Opera, con la regia di Alessandro Talevi, che tanto ha girato varie piazze operistiche a partire dal 2013 (leggi la recensione della ripresa madrilena https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/17-opera/opera2015/1985-madrid-roberto-devereux-24-25-09-2015?showall=&start=3).

Il pubblico palermitano si mostra però poco sensibile alle suggestioni aracnofobiche che caratterizzano con coerenza la parte visiva, finendo per decretare i consensi più convinti alla parte musicale agli applausi finali.