Poco fumo, molto arrosto

di Antonino Trotta

Convince su tutti i fronti la Manon Lescaut in scena al Teatro Carlo Felice di Genova: Donato Renzetti dirige con eleganza un cast ben amalgamato in cui spicca la prova di Maria Josè Siri; piace molto lo spettacolo di Davide Livermore, pur con qualche mirata postilla.

Genova, 27 marzo 2022 – Cosa sarebbe il teatro d’opera senza i capricci di dive e divi? Un teatro d’opera in cui il marketing ha il doppio da fare. Già perché meglio di locandine e annunci, i ghiribizzi delle primedonne attirano i melomani come api sul miele. Al Carlo Felice di Genova il prodotto, poi, è davvero ottimo sicché quella che alle cronache è stata consegnata come la Manon Lescaut del fumo, alla prova del palcoscenico si rivela anche una bellissima Manon Lescaut.

Nello spettacolo firmato da Davide Livermore e qui ripreso da Alessandra Premoli non convince tutto, ma ciò che non convince sembra onestamente ininfluente. Ininfluente è, ad esempio, l’escamotage del flashback cinematografico – appartenente al catalogo retorico di Livermore – per cui la narrazione è da intendere come il ricordo dell’anziano Des Grieux – interpretato dall’attore Roberto Alighieri – che, tornato su Ellis Island – l’isola che fungeva da filtro alla città di New York per il copioso flusso di migranti provenienti dall’Europa, la Lampedusa americana insomma –, apre le scatole della propria mente in una brevissima scena incoativa in inglese, introdotta dal regista, in cui il presunto ottantenne chiede e ottiene da un poliziotto cinque minuti della Registry Room del sito. Ed è ininfluente perché niente di ciò che seguirà appare in qualche modo vincolato al mondo della memoria – se non qualche movimento scenico in cui il vecchio e onnipresente Des Grieux interagisce coi fantasmi del passato, cosa tra l’altro un tantino illogica –, è nullo nell’economia della lettura dramma che invece ha un suo fascino nell’ottica del racconto della storia di una migrante. D’altronde Manon Lescaut è perennemente in moto seppur inerte, appare manipolatrice ma è in balia di un destino, accettato comunque di buon grado, che altri hanno sempre scritto per lei – il padre la vuole in convento, il fratello la vende a Geronte e favorisce l’incontro fedifrago con Des Grieux, la giustizia la condanna all’esilio – e che nell’incontrollata concatenazione di sventure, causate da scelte sbagliate, conduce all’addio alle terre natie. Poi, per carità, Manon non è uno stinco di santo e non ci sorprende affatto vederla ape regina di un postribolo come se Parigi fosse un’Arcore qualunque e Geronte avesse fatto fortuna con la televisione, anzi, quella collocazione ben spiega certe dinamiche di mercificazione che poi nell’opera finiscono col qualificare con severità la protagonista. Protagonista, appunto, che tra il primo e il secondo atto vive una radicale evoluzione: timida, insicura, spenta ad Amiens, quando ammutolita attende il treno del fato seduta su di una panchina, spregiudicata e furoreggiante nel suo boudoir, come inebriata dalle lusinghe del dio della ricchezza – per cui in ogni caso già nutriva, lo ammette il fratello sul finire del primo atto, una spiccata simpatia – al quale poi ella offrirà la propria vita. Certo, fa un po’ strano sentirla cantare «sola, perduta, abbandonata» in un centro di accoglienza evidentemente pieno di persone, tuttavia Manon è così sopra le righe e corrotta dagli agi che immediatamente si intravede in quella solitudine un isolamento psicologico quasi commovente, lo stato mentale di una donna rassegnata che nell’unico momento in cui si impossessa delle proprie sorti decide di lasciarsi morire. Se il taglio non convince tutti, pazienza. Ciò che però aggiunge valore all’idea è la grande teatralità con cui questa è sviluppata: tutti sul palcoscenico recitano, tutto ciò che si vede è motivato da pensiero e tecnica. Le scenografie di Livermore e Giò Forma son poi magnifiche, i costumi di Giusi Giustino pure, e la sapiente commistione di antico – la bellissima locomotiva a vapore, ad esempio, che per inciso fa pochissimo fumo – e moderno – le videoproiezioni di D-Wok – regala alla messinscena un segno visivo sontuoso e seducente. Possiamo dirlo: finalmente un po’ di vero teatro.

Teatro che non manca mai quando a dirigere è la sapiente bacchetta di Donato Renzetti. Alla guida dei complessi del Teatro Carlo Felice, Renzetti è artefice di una concertazione, come suo vezzo, declinata all’insegna dell’eleganza e del profondo senso della misura. Una concertazione in cui il dramma si costruisce con dinamiche e fraseggio studiatissimi, tenendolo ben lontano dai fastidiosissimi puccinismi di maniera che rendono un titolo indistinguibile da un altro.

Nel complesso il cast è di buon livello. Maria Josè Siri affronta Manon Lescaut con ammirevole sicurezza, forte di una voce morbida, bella e timbrata, omogenea in una gamma che non soffre né gravi né acuti. Qualche atteso momento, è vero, manca un po’ di mordente – «In quelle trine morbide», ad esempio, è cantata col minimo sindacale di coinvolgimento –, ma lo slancio in alto le dona il pathos necessario per risolvere i drammatici terzo e quarto atto. Riccardo Massi non è un Des Grieux indimenticabile però canta il complesso ruolo con franchezza di mezzi e d’espressione. Massimo Cavalletti sul palcoscenico si concede molto e offre a Lescaut tutto il suo bel timbro. Matteo Peirone sa rendere con massima efficacia il Geronte creato da Livermore. Buona la prova del Coro del Teatro Carlo Felice istruito da Francesco Aliberti. Completano correttamente il cast Giuseppe Infantino (Edmondo), Francesco Pittari (Il maestro di ballo e Il lampionaio), Claudio Ottino (L’oste), Gaia Petrone (Il musico), Matteo Armanino (Il sergente degli arcieri) e Loris Purpura (Un Comandante di Marina).

Il giustificato entusiasmo di una platea gremita accoglie festosamente tutti gli artisti. Alla fine, in questa Manon Lescaut, c’è più arrosto che fumo.