Adriana senza diva

di Antonino Trotta

Adriana Lecouvreur va in scena al Teatro alla Scala nel sontuoso e celebre allestimento di David McVicar, fiaccamente ripreso da Justin Way: mentre Yusif Eyvazov e Judit Kutasi brillano per le qualità del canto e dell’interpretazione, Maria Agresta convince solo nell’ultimo atto.

Milano, 19 marzo 2022 – C’è poco da fare. Anche in contesti promettenti e completi come quelli della Scala di Milano, se all’appello di Adriana Lecouvreur manca la diva da teatro si esce sempre con un po’ di insoddisfazione. Non è né vedovanza né perversione melomane: nella creatura di Cilea, dalla trama a tratti improbabile e dalla scrittura musicale voluttuosa, molte cose funzionano solo quando animate da autentico carisma. Il solo fatto che il momento topico, il punto che scioglie l’intreccio alla Beautiful e instrada la narrazione verso la morte della protagonista, sia recitato e non cantato, rende bene l’idea dello spirito dell’opera e mette nero su bianco le qualità richieste alla primadonna che deve cantare, sì, e pure benissimo, ma anche far correre sulla pelle dell’uditorio un brivido ogniqualvolta ella sia chiamata a declamare versi.

Questi brividi, ahinoi, con Maria Agresta si faticano e sentire: la voce è bella, timbrata, morbida e fatta eccezione per «Io son l’umile ancella», piuttosto monocorde – è pur vero che siamo all’ultima recita e la stanchezza è da portare in conto –, la linea di canto generosamente corredata da piani e pianissimi emessi a regola d’arte che nel finale ben rendono l’idea di una vita in procinto di spegnersi insieme alle luci dei riflettori. Poi però ci sono i declamati e la tessitura grave in generale da affrontare, e in essi Agresta intravede più un problema da risolvere tecnicamente che un’opportunità drammatica da cogliere: così la sua Adriana rinuncia a fascino e mordente, risolvendosi in una correttezza di fondo poco coinvolgente. Al contrario Yusif Eyvazov ha tutto quello che Adriana non ha. Vocalmente rigoglioso – che squillo! –, tecnicamente aitante, rassicurante nella facilità con cui affronta il ruolo saettando acuti e assottigliando in mezzevoci, Eyvazov si concede, e ci concede, il lusso di colorare ogni nota, di far vibrare ogni sillaba, di incendiare il fraseggio, di interpretare, ritraendo così un Maurizio che sa entusiasmar il pubblico non appena apre bocca. Judit Kutasi, chiama a sostituire dopo la prima Anita Rachvelishvili, è balsamo per le orecchie: mezzi vocali sontuosi e carattere ferino assicurano una Principessa di Bouillon degna di nota. Alessandro Corbelli è patrimonio dell’umanità e da tale affronta Michonnet. Fanno poi molto bene i comprimari: Alessandro Spina (Il Principe di Bouillon), Francesco Pittari (Quinault), Costantino Finucci (Poisson), Paolo Nevi (Un Maggiordomo), Caterina Sala (Madamigella Jouvenot), Svetlina Stoyanova (Madamigella Dangeville). Eccellente la prova del Coro del Teatro alla Scala istruito dal maestro Alberto Malazzi.

Alla guida dei ruggenti complessi della Scala, Gianpaolo Bisanti offre una concertazione nel complesso molto buona. Escluse alcune perplessità nel primo atto – intorno alla prima romanza di Adriana ci si aspetta sempre una vaporosità orchestrale, una sorta di pulviscolo, dal quale la diva possa emergere quasi fosse una mistica creatura, che suggerisca l’idea di respiri appena presi –, tempi scattanti e dinamiche pronunciate aiutato tanto nei momenti di bonaria spensieratezza quanto in quelli in cui il dramma incalza, garantendo una lettura decisamente efficace soprattutto negli ultimi due atti.

Lo spettacolo – notissimo – di David McVicar, ripreso da Justin Way, con scene di Charles Edwards, costumi di Brigitte Reiffenstuel e luci di Adam Silverman riprese da Marco Filibeck, è festa per gli occhi: imponente, pomposo, fedele al libretto, l’esatta definizione ed esasperazione di ciò che oggi si indentifica, con accezione negativa o positiva, con l’aborrita definizione “tradizionale”. Ognuno vi mette il suo e così, quando sul palcoscenico nel palcoscenico c’è Corbelli, il tutto diventa irresistibile e caratteristico; poi però Eyvazov s’impala in proscenio, Agresta ribadisce di continuo che la sua diva non è diva, e l’interesse scema. Tutto torna: Adriana senza diva, il teatro senza teatro.