Dai dubbi al delirio

di Irina Sorokina

Qualche eccesso, ma anche qualità,divertimento e buone voci nel Barbiere di Siviglia al Teatro Pavarotti Freni di Modena

MODENA, 3 aprile 2022 - Una bella giornata di sole nella dolce città emiliana e il teatro pieno: è facile indovinare che si tratta di un titolo che attira un vasto pubblico. Un vago pensiero, un ricordo di un’altra bella città, non nella pianura padana, ma sul mar Nero: Odessa. No, non si tratta di un parere arbitrario: nei tempi di gioventù del sommo poeta russo Aleksandr Puškin a Odessa dava spettacoli una piccola compagnia d’opera italiana specializzata in Rossini. E come poteva andare diversamente? L’impresario si chiamava Zamboni e si nutre un sospetto che si trattasse del celebre cantante per cui Rossini pensò il ruolo di Figaro nel Barbiere di Siviglia. Il repertorio della compagnia incluse, tra gli altri titoli rossiniani, L’italiana in Algeri e La gazza ladra. All’epoca il Cigno di Pesaro si era già fatto un nome a migliaia di chilometri dall’Italia a dall’Europa.

Ma perché parliamo della città multietnica di Odessa con la sua compagnia dell’opera italiana? Semplicemente perché grazie a queste rappresentazioni delle opere rossiniane Puškin compose versi di una sublime bellezza:

Ed ecco che scende la sera blu;
E’ l’ora di andare all’opera,
Là un Rossini inebriante,
Orfeo viziato dall’Europa,
Senza ascoltare le critiche severe,
Sempre lo stesso e sempre nuovo,
Emette i suoni bollenti,
Che scorrono e bruciano
Come i giovani baci,
Tutto è voluttà e l’ardore d’amore,
Come un flusso dorato dell’ai sibilante.

Chiediamo scusa per questa traduzione alla lettera, che non può essere che brutta, con la speranza che almeno renda l’idea. Ma cosa serve un ricordo del sommo poeta Puškin che ebbe fortuna di godersi l’arte del Pesarese quando la sua fama non raggiungeva ancora in pieno un paese come la Russia degli zar? Serve per citare ancora una volta le migliori righe mai scritte della musica di Rossini e far notare al lettore che l’allestimento in questione, coprodotto dalla Fondazione I Teatri di Reggio Emilia e dalla Fondazione Teatro Comunale di Modena, dopo il Teatro Romolo Valli arriva al Pavarotti Freni e le soprannominate righe potrebbero essere usate per anche questa produzione.

La produzione dove tutto corre, gira, luccica, dove le arie celeberrime vengono cantate sulle piattaforme issate in aria, dove l’Almaviva in veste del maestro di canto si presenta dentro un confessionale, il povero Don Bartolo dopo la lezione di canto viene messo in vasca con le gambe all’insù e coperto da un lenzuolo: un vero delirio in scena ideato dal regista Fabio Cherstich con la complicità dello scenografo Nicolas Bovey. Ne abbiamo visti dei Barbieri simili ad un delirio, ma qui si tratta di qualcosa un tantino esagerato anche se sempre divertente. No alla Spagna settecentesca (c’era da aspettarselo, solo i costumi del tenore e del baritono ne sono un vago ricordo); sì a un collage surrealistico dove nulla, ma proprio nulla è conducibile alla realtà.

Il regista Fabio Cherstich ha ideato il suo Barbiere come un grande ingranaggio ad orologeria lasciando la scena a volte quasi vuota, ma molto più spesso riempita di oggetti di ogni genere: pedane che salgono e scendono, un grande occhio, un frigo, una vasca da bagno, dei clavicembali, una scala, una porta che porta sottosuolo, un animale finto… possiamo continuare, ma non ce n’è bisogno. C’è davvero tutto quel si può immaginare e lo scenografo Nicolas Bovey parla dello spettacolo come “un collage dadaista tridimensionale dove tutto è artificioso e inverosimile”. La messa in scena di Cherstich e Bovey affiancati dal costumista Arthur Arbesser e dal light designer Marco Giusti risulta efficace, divertentissima, simpaticissima, ma sa di troppo. Troppe gags, troppi oggetti in scena, troppo movimento, troppo luccichio, colori troppo sgargianti. Si ricorda una frase buffa proveniente dalla gioventù dell’autrice: “Quel che è troppo, è troppo, disse la vecchietta uscendo da sotto il filobus”. Nel nostro caso al filobus chiamato “collage dadaista” è mancato un attimo per ammazzare la vecchietta definitivamente.

Un buon cast, con qualche piccolo dubbio, si è presentato in questo folle Barbiere, partendo un po’ in sordina, ma scatenandosi sempre di più vocalmente e scenicamente. Sul palcoscenico del Teatro Comunale Pavarotti Freni abbiamo ascoltato voci non eccezionali, ma ben educate e intelligenti, con un risultato finale brillante.

Nel ruolo del titolo il baritono Simone Del Savio si è dimostrato erede della tradizione disegnando Figaro brillante, spiritoso e pieno d’energia. Voce chiara, gradevole, ben lavorata, padronanza di stile, parola ben articolata, dizione nitida. Nella profondità dell’animo ci vorrebbe un Figaro più affascinante, ma Del Savio è in possesso di moltissime qualità per il ruolo dello scatenato barbiere, capacità attoriali comprese. Un punto particolare a suo favore è stato sicuramente l’accento.

Una Rosina non convenzionale e per questo particolarmente gradevole è stata Michela Antenucci. Il soprano (eh si, nello spettacolo modenese la parte della pupilla furbetta del dottor Bartolo è stata affidata a un soprano) ha proposto una Rosina inedita; come possiamo definirla? Con molta classe, acculturata, discretamente "sciccosa" e seducente. E così la voce, sicuramente, non enorme, ma ben sonara, ben timbrata e piacevolmente morbida. “Una voce poco fa” è stato un successo come anche l’aria nel secondo atto “Contro un cor che accende amore”, segnata da un’eleganza autentica e una spiccata musicalità.

Il tenore Ruzil Gatin venuto dalla Repubblica Autonoma di Tatarstan che fa parte della Federazione Russa è andato in crescendo, ha iniziato bene e finito benissimo, ottenendo un grande successo personale. “Abbiamo un nuovo tenore rossiniano”: possiamo proclamarlo con certezza di fronte alla voce dolce e carezzevole, dalla perfetta comprensione di stile e dalla maestria di coloratura. Una graditissima sorpresa è stata l’interpretazione della perfida aria “Cessa di più resistere”, che per la sicurezza con è stata cantata ha provocato quasi un delirio nel pubblico.

Riccardo Novaro è stato un don Bartolo corretto e sufficientemente convincente, ma poco incisivo, senza il pizzico dell’originalità che avrebbe giovato al personaggio. Voce chiara ben impostata, tecnica salda, sillabato soddisfacente. “A un dottor della mia sorte” è di tutto rispetto, ma è mancato “qualcosa”. Sarà la mancanza di grinta, di un pò di cattiveria?

È stato un po’ strano ascoltare un baritono nel ruolo di Don Basilio, tuttavia Guido Loconsolo ha fatto una buona impressione nella celeberrima Calunnia che volens nolens ci rimanda alle grandi interpretazioni del passato. Ha trovato un proprio modo di cantarla, con un garbo e meno “diavoleria”, con un buon legato e dei colori variegati e anche per il resto ha preferito di non sottolineare nel suo personaggio tratti spaventosi.

Molto bene il mezzosoprano brasiliano Victoria Pitts nel ruolo di Berta, attrice avvenente dalla marcata personalità e cantante dalla voce bellissima, che ha ottenuto un grande successo con “Il vecchiotto cerca moglie”.

Ottimo lavoro del giovane direttore Leonardo Sini alla guida della Filarmonica dell’Opera Italiana Bruno Bartoletti, che dalle prime note della celeberrima sinfonia ha immerso il pubblico nel clima esilarante dell’opera con ritmi vivaci e ben tenuti, colori vivaci e dolci, linee accuratamente disegnate e con dinamiche ben gestite per arrivare a una vera esplosione. Buone parole per il Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia preparato da Martino Faggiani.

Alla fine un successo enorme, se non delirante, e gli applausi a non finire a scena aperta.