Una Turandot contro la guerra

 di Stefano Ceccarelli

Al Teatro dell’Opera di Roma va in scena Turandot di Giacomo Puccini. A dirigerla è Oksana Lyniv; firma una regia sperimentale l’artista cinese Ai Weiwei. Nel cast figurano Oksana Dyka, nel ruolo del titolo, Michael Fabiano come Calaf e Francesca Dotto nel ruolo di Liù. Gli applausi finale attestano il gradimento del pubblico per una produzione che fa riflettere anche sulla tragedia della guerra in Ucraina.

ROMA, 30 marzo 2022 – Questo marzo, per i romani, è stato il mese di Turandot. Ben due produzioni, e di un certo rilievo, si sono succedute nei due più importanti palcoscenici della Città Eterna: la sala Santa Cecilia e il Costanzi. Coincidenza? In parte, certamente, sì, ma i vari spostamenti di date causate dalla pandemia hanno contribuito, e non poco. La presente Turandot, infatti, avrebbe dovuto essere stata portata in scena, al Costanzi, diverso tempo fa. Avranno, in ogni caso, gioito gli amanti di questo capolavoro pucciniano, godendone di ben due versioni differenti e alquanto diverse nella lettura complessiva dell’opera. Della produzione diretta dal maestro Antonio Pappano, in forma di concerto, ho già parlato, qualche giorno fa (leggi la recensione).

Al Costanzi Turandot manca dal 2015, quando andò in scena alle terme di Caracalla in una non memorabile regia di Krief (leggi la recensione). Nelle presenti recite, invece, la regia è affidata a Ai Weiwei e tale produzione costituisce il suo debutto operistico. Artista poliedrico, anticonvenzionale e politicamente impegnato, Weiwei crea una Turandot intrisa, figurativamente, di diversi linguaggi; talmente tanti, oserei dire, da rischiare di lasciare il pubblico un po’ disorientato. Dirò sùbito che, a mio avviso, l’operazione del regista è solo parzialmente riuscita. Mi spiego meglio. Le potenzialità dello spettacolo di Weiwei sono palmari, ma non tutto è curato con la medesima attenzione; sembra che manchi qualcosa per far veramente svettare questa regia. Come scenografia, Weiwei crea una scalinata che si rompe in pilastri in rovina; sul palco sono presenti vuoti sagomati sul profilo dei continenti, usati da vari personaggi o comparse per entrare e uscire dalla scena. La scena in sé, quindi, è quanto di più astratto si possa trovare, alludendo all’universalità della vicenda inscenata; leggendo le sue parole a tal proposito, inoltre, pare che il regista avesse più in mente le rovine romane che non un mondo orientale fiabesco, come prescritto dal libretto di Turandot. Il fondale scenico prende vita solamente al contatto con i personaggi e quando è animato dalle proiezioni, abbondanti, persino pervasive. Proiezioni molto significative, del resto: dalle immagini della pandemia ai moti di Hong Kong, Weiwei mostra il suo lato più squisitamente politico e dissacrante, una sua innegabile firma. Altre proiezioni, invece, mi sono meno chiare. Certamente, fra queste figurano quelle della scena degli enigmi e dell’apparizione dell’imperatore Altoum: immagini di varia natura e origine, che circondano una figura umana, quasi una rappresentazione dell’ordine cosmico. È qui che Weiwei utilizza simboli della cultura orientale cinese, servendosi del patrimonio della sua tradizione. I personaggi sono presentati in scena con costumi che traggono ispirazione dalle più disparate culture; nel disegnarli, Weiwei strizza l’occhio alla tradizione manga/anime, come pure al fantasy più squisitamente occidentale. L’imperatore Altoum sembra quasi mago Merlino, mentre Calaf ha un enorme zaino a forma di rana e indossa dei rasta cui sono applicate delle palline colorate, del tutto simile all’acconciatura di Liù – il che non è un caso, visto che provengono dallo stesso popolo. Eccentrici (soprattutto nei copricapi) sono i costumi di Ping, Pang e Pong, che giocano su colori netti. Singolari sono i due abiti di Turandot; se il primo trae spunto dall’imagerie di una cantante come Lady Gaga, il secondo è più fiabesco, con un copricapo a forma di ragno. Complessivamente considerata, la regia di Weiwei manca di un momento che rimane impresso nella memoria; tuttavia, molte risultano le scelte particolari, talune persino difficili da leggersi. Un caso è il finale III, cioè la morte di Liù, quando una serie di comparse, in abiti da lavoro, formano una catena che si muove, in parte, in moonwalk. Sembra una sorta di sublimazione di un rito funebre, ma il tutto assume un che di straniante e metateatrale. Fra le idee a mio avviso più brillanti di Weiwei va annoverato l’uso di un danzatore tradizionale cinese, Chao Hsin, un danzatore/regista esperto di arti performative, che compare per la prima volta come Principe di Persia e, successivamente, a simboleggiare l’anima di Liù. Hsin ci trasporta nell’autentico mondo della danza tradizionale cinese, incarnando, forse, l’elemento più orientale di tutta la produzione. Un vero e proprio coup de théâtre, per chiudere la disamina della parte registica, è la proiezione di una ragazza, bardata di tutto punto con una tuta medica per proteggersi dal Covid-19, che viene proiettata sul fondale nel momento in cui Turandot entra in scena per la prima volta.

La direzione di questa Turandot è affidata a Oksana Lyniv. La Lyniv ha una sensibilità particolare per un’agogica netta, energica, che valorizza soprattutto i momenti maggiormente epici (come l’ingresso di Altoum e la scena degli enigmi). La sua è una lettura tesa, vibrante, che scava nelle potenzialità sonore dell’orchestra; una lettura netta, per campiture di colore strumentale. Una resa che lascia poco spazio alla valorizzazione di singole nuance, ma che restituisce la vena di un Puccini potente, tal è quello di molti passaggi della Turandot. Tale lettura, però, talvolta rischia di coprire l’esecuzione dei cantanti stessi, che sono un po’ sovrastati dalla generosa massa orchestrale. Al netto di tutto, comunque, la Lyniv emoziona il pubblico con la sua bacchetta. Nel cast vocale manca una voce che rimanga indelebilmente impressa, ma tutti gli interpreti concorrono alla buona resa della serata. La Turandot di Oksana Dyka, dotata di una voce squillante, ancorché non propriamente potente, dona una dignitosa performance, ben rappresentata dalla sua ‘aria’ «In questa reggia»; a dover di cronaca, non tutti i passaggi mostrano il medesimo controllo vocale, ma l’interprete dona tutta sé stessa e viene applaudita a fine recita. Calaf è cantato da Michael Fabiano, che possiede una voce granulosa, ma un timbro squillante, acuto, particolarmente adatto al ruolo. Il fraseggio è sempre ben tornito, come appare nell’arioso «Non piangere Liù», ricco di sfumature; ci sono pure tutte le note, unite a una buona interpretazione, nel celeberrimo «Nessun dorma», che strappa un applauso sentito. Francesca Dotto canta una Liù ben centrata, dalla voce malinconicamente vibrata; è forse la cantante che sul palco gioca meglio con i colori offertile dalla parte dell’infelice schiava. Infatti, nel «Tu che di gel sei cinta» smorza i passaggi, creando un’atmosfera consona al momento e meritandosi molti applausi a fine recita. Antonio di Matteo è un buon Timur, dalla voce cavernosa; Rodrigo Ortiz canta dignitosamente Altoum. Fra le tre ‘maschere’, il Ping di Alessio Verna è il personaggio più riuscito; un gradino sotto il Pang di Enrico Iviglia e il Pong di Pietro Picone. Il mandarino è cantato da Andrii Ganchuk. Coro e orchestra tutta donano una buona performance.

La scelta di terminare l’opera con la morte di Liù, come fece Toscanini per la première del 1926, cristallizza il finale dell’opera in un momento che non ammette redenzione alcuna. Liù, benché scelga volontariamente di morire, è quasi la vittima incolpevole delle volontà regali cui il destino l’ha legata. La sua triste morte in scena non può che simboleggiare quella di tanti ucraini che oggi fanno i conti con un’atroce guerra. Questo messaggio ci viene giustamente ricordato anche dalla direttrice Lyniv e dalla Dyka, che si presentano a prendere gli applausi indossando la bandiera del loro paese.