Turandot a dita incrociate

di Antonino Trotta

Dieci abbondanti minuti di applausi, da parte di una sala tutta esaurita, festeggiano la ripresa di Turandot a Torino: li meritano appieno Giuliana Gianfaldoni, Michele Pertusi e il Coro del Teatro Regio.

Torino, 24 aprile 2022 – Sulla linea temporale che riassume la storia recente del tempio sabaudo la Turandot firmata da Stefano Poda s’è guadagnata certamente un’etichetta grande come una casa: ultimo sontuoso spettacolo di un’era in cui il Teatro Regio di Torino s’imponeva tra i migliori a livello nazionale – dopo di essa ci fu solo una Salome in forma semiscenica e poi il macello – e punto di collasso di un sistema che alla lunga si dimostrò insostenibile, dopo il suo debutto nel gennaio del 2018 il Teatro visse una serie di cadute, più o meno metaforiche, di teste, più o meno vuote, che da lì in poi hanno costretto l’ente, i suoi lavoratori e il suo pubblico su di un ottovolante che ha messo a dura prova la tenuta di stomaco di tutti e a cui s’è sopravvissuti, diciamolo, grazie al resiliente talento delle masse artistiche, unica certezza di questi quattro movimentatissimi anni. Oggi, dopo sovrintendenti funesti piazzati da gente ancor più incompetente, commissari economicamente – almeno così pare – salvifici, direttori artistici spesso mortificati nella loro professionalità e per non farsi mancare niente pure una pandemia, per il Teatro il peggio sembra essere passato e sotto la nuova guida di Mathieu Jouvin – ex vicedirettore degli Champs-Elysées di Parigi – si riparte, a dita incrociate, proprio da quella Turandot smantellata e riposta nei magazzini di Settimo insieme al prestigio del Regio, festeggiata, alla seconda recita, con commovente partecipazione da una sala tutta esaurita la cui sola vista provoca sincero entusiasmo.

E menomale perché sullo spettacolo di Stefano Poda, ora, chi scrive sente di dover fare una significativa retromarcia. La lettura che infatti allora, agli stessi occhi, sembrava raffinata e affascinante – era comunque un periodo in cui non si badavano a spese, probabilmente il Franciacorta al bar era gratis –, adesso appare calligrafica, autoreferenziale e pretestuosa, disinteressata alla drammaturgia e condotta esclusivamente con l’intento di squadernare uno stile e assecondare un’esigenza estetica. La messinscena di cui Poda firma regia, costumi, scene, coreografie e luci ha di fatto due problemi. Il primo è tecnico: come l’enorme microonde – la scenografia è un’enorme scatola bianca con un piatto girevole alla base – si svuota e i magnifici ballerini di dileguano, il ritmo della narrazione subisce una botta d’arresto e l’attenzione, che comunque la pomposità di tutto l’apparato desta, s’inabissa, così momenti come il primo quadro del secondo atto finiscono con l’essere una noia mortale. Il secondo è teatrale: non v’è un personaggio di cui si definisca la personalità, sono tutti uguali, tutti amorfi, e se ciò funziona bene là dove protagonista è l’eccezionale Coro – Poda, poi, gioca anche con moltiplicazioni della principessa di gelo e in questi frangenti lo spettacolo ha una sua coerenza –, rimane altrove la sensazione di un canto decontestualizzata e appeso nel nulla.

Vero è che i due protagonisti, Turandot e Calaf, nella mancanza di carattere sguazzano divinamente. Ingela Brimberg in Turandot vede solo un numero vocale, una sequenza di do da azzeccare con noncuranza di colore, dinamiche e fraseggio. Non si scomoda nemmeno a pronunciare le consonanti, così il ruolo si trasforma in un lungo e stentoreo vocalizzo. Mikheil Sheshaberidze, invece, alla piattezza del suo principe ignoto aggiunge pure mende tecniche che lo obbligano a emissioni forzate e ingolate. Per fortuna sul palcoscenico ci sono anche Giuliana Gianfaldoni e Michele Pertusi: la prima è una Liù straordinaria nel canto e nella recitazione – encomiabile è anche l’enfasi e la dedizione con cui ha realizzato i movimenti prescritti da Poda –, incantevole per la beltà del timbro cristallino, sempre toccante nella purezza di un fraseggio raffinato che nulla lascia al caso, inebriante grazie ai filati mozzafiato che si spandendo per tutta la sala e coccolano l’ascolto con delicatissime carezze ai timpani; il secondo nei panni di Timur, tra tanto sfarzo, l’autentico lusso di questa produzione. Ottime le tre maschere – Simone Del Savio, Ping; Manuel Pierattelli, Pang; Alessandro Lanzi, Pong –, Nicola Pamio quale Imperatore Altoum, Adolfo Corrado come mandarino, Dario Prola in veste di principe di persia, Pierina Trivero e Eugenia Braynova nei ruoli della prima e della seconda ancella.

Alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino, Jordi Bernàcer convince in parte: convince l’approccio “sinfonico” alla partitura, l’accentuazione assennata dei sentori novecenteschi della partitura, la ricerca di dettagli strumentali e influenze contemporanee senza soffocare il respiro pucciniano – musicalmente molto bello, ad esempio, è l’apertura del secondo atto – con velleità estranee ad esso; convince meno il rapporto col palcoscenico, il sostegno a coro, cantanti e danzatori, specie nel primo atto, intorpidito qui e là da attacchi non sempre precisissimi.

Ben dieci minuti di applausi, senza contare quelli a scena aperta e soprattutto quelli dopo «Nessun dorma» – che solitamente sono applausi a Puccini e Pavarotti, non al tenore in questione –, chiudono la seconda recita. Che il nuovo corso del nostro amato Teatro Regio abbia inizio. Incrociamo le dita.