Non è follia

di Roberta Pedrotti

La prima produzione verdiana dell'Orchestra Senzaspine di Bologna porta avanti un progetto di inclusione e accessibilità confermando idee e risultati.

BOLOGNA, 26 e 27 aprile 2022 - Nel 1945, subito dopo la guerra, al Teatro Duse subito tornò l'opera, con Rigoletto. Molti collocano la celebre battuta loggionistica riferita a una pingue Gilda (Lina Pagliughi?) proprio nella sala attigua a Porta Castiglione: “At fa ben do viaz” (“ti tocca far due viaggi”, per trasportare il sacco – e perdonino per la maldestra trascrizione del dialetto). Andare all'opera non solo nello spazio principe del Comunale, a Bologna, è sempre un piacere: più occasioni ci sono, meglio è, anche perché non sono solo le risorse e le strutture organizzative a differenziarsi, ma anche lo spirito, il tipo di pubblico, le modalità di fruizione. Per noi habitué può essere, diciamocelo, un po' straniante, specie per quegli annunci sponsorizzati a tutto volume che sostituiscono i familiari campanelli nel segnalare il prossimo inizio dello spettacolo. Tuttavia, fa sempre piacere, diverte e stuzzica trovarsi in mezzo a un pubblico diverso, curioso, non intimorito, giovani, famiglie, qualche anziano, qualche comportamento poco convenzionale (ma che sarà una parola in più rispetto agli scartocciatori compulsivi di caramelle e alle serate con telefonini concertanti in tante sale blasonate?), tanta genuina spontaneità.

Il guaio, semmai, su cui si dovrebbe riflettere, in una presenza ormai regolare dell'opere e della musica classica al Duse, è l'acustica. Senza buca (quella che c'è sarebbe troppo piccola, adatta alle riduzioni minimaliste in uso un secolo fa in provincia), tutta predisposta anche in imbottiture e rivestimenti per teatro di parola o concerti amplificati, la sala avrebbe forse bisogno di qualche aggiustamento. Si sente quando la gamma dinamica verdiana mette alla corda la risonanza dello spazio, l'orchestra al livello della platea enfatizza i fortissimi e complica il rapporto con il palco. Matteo Parmeggiani, al debutto in un'opera di Verdi, pone, a dire il vero, ogni cura nel far andare a braccetto impeto drammatico ed equilibri sonori. Anche per questo, l'impegno dell'Orchestra Senzaspine, sempre più affinata e affidabile, al Duse speriamo che stimoli qualche miglioria acustica.

Del resto, questa collocazione ha molte frecce al suo arco, non ultima la sintonia con il progetto di integrazione e inclusione che i Senzaspine stanno portando avanti con sempre maggiore successo. Se all'inizio – ormai dieci anni or sono – l'idea di non pungere poteva far pensare al disimpegno, ora è chiaro che sia l'opposto: la musica non punge perché accoglie, tutti, perché riesce a parlare perfino a chi non la può sentire. Alcuni figuranti, infatti, sono disabili uditivi, mentre il linguaggio dei segni continua a integrarsi con felici e originali effetti nella gestualità di coro e solisti. Poi, ci sono pannelli tattili per permettere a chi soffre di disabilità visive di familiarizzare con i personaggi e i loro costumi (caratterizzati dal tessuto oltre che dal colore), ci sono libretti in caratteri ad alta leggibilità, soprattitoli inseriti attivamente nelle proiezioni sceniche, a vantaggio anche di chi si definisce “normodotato” ma non ha dimestichezza con i libretti d'opera. Merita allora un elogio il regista Giovanni Dispenza che sa il fatto suo – già lo sapevamo – ed è capace di lavorare bene anche con poco senza effetto “nozze con fichi secchi”, imbastendo uno spettacolo chiaro e non banale. Monica Mulazzani caratterizza bene ogni personaggio con i suoi costumi atemporali – un po' di tradizione, un po' di contemporaneità, un po' di fantastico – e il progetto video di Daniele Poli sui disegni di Andrea Niccolai con le luci di Pietro Sperduti fa il resto: un'iconografia dark pop, mai sopra le righe, sempre funzionale al racconto, che pare molto apprezzata dal pubblico.

Sfida vinta, insomma, anche perché musicalmente non ci si adagia sugli allori di un'opera di facile effetto. Parmeggiani – non a caso assistente di Daniele Gatti proprio per Rigoletto – non fa piazza pulita della tradizione, ma fa sempre riferimento al dettato verdiano e, così, si sente per esempio un bel “Ah, no, è follia...” cantato piano, “un vindice avrai” senza acuto e portamento, ma così come è scritto. Gliene siamo grati, non era scontato.

Per tre recite, si alternano due cast. Il primo è capitanato dal Rigoletto invero interessante di Ettore Chi Hoon Lee: bella dizione, buona musicalità, voce chiara e sicura. Al suo fianco c'è la bolognese Scilla Cristiano, a fare un po' da punto di riferimento per la sua assidua frequentazione di Gilda (chi scrive la conobbe in un concorso che vinse proprio con “Caro nome”). Alessandro Fantoni è un Duca dal piglio virile, ma è lo squillo di Giuseppe Infantino, la sera successiva, a colpirci di più. Con lui, il 27 aprile, la Gilda interessantissima di Sabrina Sanza e il Rigoletto rodato di Alessio Verna. Se il coro Colsper preparato da Andrea Bianchi è una felice nuova acquisizione, il resto del cast non cambia: Maddalena e Sparafucile sono Sabrina D'Amato e Alberto Bianchi Lanzoni, perfetti physique du rôle; Marullo è Gabriele Barria, Borsa Michele Pinto, Monterone Alessandro Martinello, Ceprano Daniele Di Nunzio, Giovanna Anna Ussardi, la contessa di Ceprano e il Paggio Raffaela Marrazzo. Chi più saldo, chi più acerbo, tutti hanno contribuito con convinzione ed entusiasmo e il successo non è mancato. 

Una sala piena e festosa, l'opera anche fuori dalle fondazioni e dai teatri di tradizione per permeare un tessuto sociale in un progetto davvero per tutti. Si può fare.