Bella come un tramonto?

di Roberta Pedrotti

Il terzo capitolo della trilogia operistica televisiva coprodotta da Rai e Opera di Roma risulta anche il meno convincente. 

Cogliere l'attimo. Nel dicembre del 2020 l'Opera di Roma lo colse eccome, inventandosi un'inaugurazione in lockdown, in formato televisivo che poi si trasformò in un piccolo miracolo, con Il barbiere di Siviglia e l'attualità, il teatro, il lavoro dietro le quinte, la città, i cantanti e e i personaggi, i costumi ipertradizionali e gli abiti di tutti i giorni o le tute da lavoro, quel terribile “Tutto è silenzio, nessun qui sta”, la sala fisicamente legata e liberata. Fu un successo, un risultato forse superiore alle aspettative, tant'è vero che, nella chiusura della primavera 2021, si fece il bis con La traviata. Non ugualmente fresca, ispirata, dirompente, ma comunque interessante, tale da suscitare un dibattito – dopo il plauso più o meno incondizionato all'opera di Rossini – assai vivace, anche per le scelte musicali di Daniele Gatti.

Non c'è due senza tre, si dice, ma ormai i teatri sono aperti a piena capienza, non si intercetta più l'urgenza del momento. La formula, insomma, deve essere ripensata, trovare nuova linfa vitale. Certo, quando la presentazione per la prima tv sulla generalista Rai3 è affidata ancora a Corrado Augias – che già aveva infilato gaffes introducendo Gianni Schicchi e pure qui appare impreciso e imbolsito – di aria fresca è difficile parlare: e sì che la Rai aveva coinvolto di recente Stefano Vizioli, che se l'era cavata benissimo e avrebbe potuto dare il via a un rinnovamento con capaci addetti ai lavori.

Quando l'opera comincia, si sente subito il peso delle aspettative: le precedenti produzioni televisive dell'Opera di Roma erano state, l'abbiamo detto, un successo anche mediatico; ora sul podio c'è Michele Mariotti, il nuovo direttore musicale del Teatro che della Bohème, per di più, aveva firmato quattro anni fa a Bologna un'edizione subito riconosciuta come epocale [Bologna, La bohème, 19/01/2018, Bologna, La bohème, 23/01/2018]. Difatti, fra le cose migliori ricorderemo certi passaggi della sua concertazione, come il bellissimo accompagnamento di “Che gelida manina”, o il senso estremo di sottrazione su cui imposta l'ultimo quadro a partire dall'ingresso di Musetta. Tuttavia, anche musicalmente, questa Bohème televisiva non avvince come protrebbe. Il tipo di passo drammatico, i colori e le dinamiche dell'esperienza teatrale non sono paragonabili al filtro televisivo e al tipo di rapporto che si instaura fra direttore, orchestra e cantanti (e pubblico), bisogna tenerne conto per il direttore come per il cast.

Questo è sostanzialmente buono, anche se non travolgente: Tetelman è un tenore da risentire, interessante, che accampa un Rodolfo un po' troppo stentoreo e poco poeta; Federica Lombardi ci ammalia forse più in Mozart, ma è Mimì che sa cantare con gusto e sensibilità; Davide Luciano non buca il video come Marcello allo stesso modo con cui ci ha conquistati dal vivo nel belcanto; Roberto Lorenzi, Schaunard, è un giovane già apprezzato in tante situazioni. Chi proprio non funziona è Valentina Naforniţă è una Musetta di voce fin troppo esile, un po' indisponente, che paradossalmente risulta palliduccia e perfino troppo “brava ragazza” nel secondo quadro per poi finire antipatichetta (anche il costume, con spolverino e foulard ci mette il suo) nel quarto. Giorgi Manoshvili è un Colline un po' cavernoso (ma varrà sempre la prova d'appello in teatro), mentre Armando Ariostini e Bruno Lazzaretti rendono con gran classe Benoit e Alcindoro. Le parti minori, che la telecamera avrebbe magari potuto valorizzare, si disperdono e qui viene al pettine uno dei problemi maggiori della regia di Mario Martone, rinunciataria proprio là dove avrebbe potuto e dovuto farsi valere. La gestione del caffé Momus è uno dei punti chiave e principali banchi di prova di ogni produzione della Bohème, per l'intreccio di interventi che devono costituire un perfetto meccanismo a orologeria in cui nulla – dal salame alle prugne di Tours, dalla grammatica runica al ragù – deve andar sprecato. Qui lo si lascia in sottofondo in una corsa in auto e poi con tutti comodamente fermi e seduti alle panche di un'osteria. Ecco il problema di questa Bohème, che ha perso la carica, il desiderio di reazione, l'impulso creativo del Barbiere e della Traviata: bene voler far abitare la gioventù bohèmienne con i suoi sogni fra i laboratori e le sale prove del teatro, ma alla fine tutto risulta finto e annacquato più che nostalgico e delicato. Sanno di calligrafia anche i dettagli pensati con cura – l'ambientazione fra Nouvelle Vague e contestazione, Marcello che deve dipingere il Mar Rosso su un fondale ma ama in realtà la pittura astratta – se manca un'intima verità nella recitazione, il lavoro attoriale non sembra altrettanto profondo e minuzioso, la fotografia di Sandro Carotenuto diventa più un fine che un mezzo.

Sarà un caso che gli agoni melomani non si sono poi infiammati e l'auditel non si è impennato come per le precedenti produzioni televisive dell'Opera di Roma? Ci auguriamo, però, che non sia un pretesto per allentare i rapporti stretti in tempo di pandemia fra Rai e teatri d'opera, semmai uno spunto di riflessione: non tutti gli spettacoli possono riuscire ugualmente bene, bisogna sapersi rinnovare, tener presente che la natura dell'opera è nell'evoluzione dei linguaggi teatrali dal vivo, ma che pure lo sposalizio con schermi e telecamere può dare frutti interessanti, da non trascurare.