Il vecchio e il nuovo

di Antonino Trotta

Al Teatro Carlo Felice di Genova di Genova Vivien Hewitt riprende il Rigoletto firmato da Rolando Panerai: in uno spettacolo di buona routine Amartuvshin Enkhbat fa il pienone di applausi.

Genova, 15 maggio 2022 – Sul finire di una stagione che ha visto avvicendarsi produzioni di notevole qualità – si pensi alla rara Bianca e Fernando d’apertura, al trionfo vocale di Anna Bolena, alla recente Manon Lescaut, al gustosissimo dittico Pergolesi-Bernstein o alla Vedova Allegra felicemente recensita su queste colonne da un collega –, un spettacolo di routine non è poi un danno irreparabile. Se poi il titolo in questione è un’opera da battaglia come Rigoletto, generalmente posta – anche dai teatri più blasonati – in cartellone per assicurarsi il massimo rendimento al botteghino col minimo sforzo – risultato, tra l’altro, sempre raggiunto –, la routine è la regola e ci siamo tutti un po’ abituati.

Nel riprendere il Rigoletto di Rolando Panerai, con costumi di Regina Schrecker, coreografie di Nicola Marrapodi e luci di Luciano Novelli, Vivien Hewitt confeziona uno spettacolo in verità molto modesto, canuto nelle intenzioni e ancor di più nella realizzazione – sarebbe il caso di emanare un’ordinanza per vietare il dietrofront tra aria e cabaletta –, tutta concentrata su un didascalismo inanimato che finisce poi col disinteressarsi completamente alla credibilità scenica. Lo spettacolo, comunque, lo si conosceva già ed è difficile crucciarsene, soprattutto nel momento in cui la parte musicale – sì, il teatro d’opera non è blocchi che si sovrappongono ma dimensioni che si intrecciano, però brutto a metà è meglio di tutto brutto – regala belle soddisfazioni.

Amartuvshin Enkhbat nel ruolo del titolo fa, strameritatamente, il pienone d’applausi. Il baritono mongolo, del resto, non è solo un fiume di voce in piena, è un fiume in piena di voce magnifica, emessa a regola d’arte, ovunque timbrata e omogenea, rotonda e ricca. Ascoltato quasi sempre in ruoli dal sangue blu – Amonastro, Nabucco, Carlo V – che dall’eccellenza del suo canto traevano statura e nobiltà, con Rigoletto Enkhbat lascia qui e là – nel finale, ad esempio – notare lo stacco tra il vocalista e l’interprete, nonostante il lavoro di eccelso cesello condotto sulla parola e sull’accento. Al netto di qualche passaggio dall’intonazione sdrucciolevole – il sol bemolle in chiusura di «Parmi veder le lagrime», ad esempio, è calante –, Giovanni Sala è un buon Duca di Mantova. Misurato ed elegante nel fraseggio, sicuro nel canto e attento alle dinamiche, Sala interpreta il ruolo con la consapevolezza che il Duca è un personaggio e non un piedistallo: manca un po’ di squillo, è vero, ma dell’irriverente sciupafemmine sa offrire un ritratto distino, sa costruire un uomo aitante ma mai inutilmente baldanzoso, e lo sa fare senza sbracare a destra e a manca, senza gigioneggiare, lasciando insomma che a irritare siano le malefatte del Duca e non quelle del tenore che lo canta. Per Gilda Enkeleda Kamani segue la strada della ragazza svampitella e bamboleggiante: il timbro, chiaro e luminoso, ben si addice all’immagine della fanciulla; il buon legato e le morbide smorzature fanno di «Tutte le feste al tempio» un momento di toccante espressività, tuttavia il canto di agilità abbisogna di maggiore precisione e il registro sovracuto di minore tensione. Ottimo Riccardo Zanellato nel ruolo di Sparafucile e valida Caterina Piva come Maddalena. Completano correttamente il cast il Monterone di Gianfranco Montresor, il Marullo di Marco Camastra, il Matteo Borsa di Didier Pieri, il Conte di Ceprano di Claudio Ottino, la Contessa di Ceprano di Daniela Aloisi, Filippo Balestra e Lucia Scilipoti quali Usciere e Paggio. Davvero ammirevole, infine, è la prova del Coro del Teatro Carlo Felice istruito dal maestro Francesco Aliberti.

In buca, alla guida dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice, Jordi Bernàcer fa un lavoro molto buono. Senza mai distrarsi dalla ricerca di una tinta, Bernàcer concerta l’opera con accattivante senso drammatico: pur con qualche sporadico scollamento tra golfo e palcoscenico, il fraseggio orchestrale è affilato, le dinamiche e le agogiche sono esplorate ad ampio spettro, il ritmo della narrazione, in definitiva, incalzante e teso.

Un teatro Carlo Felice gremito festeggia con entusiasmo tutto il cast. Da sottolineare, mai come questa volta, la presenza in platea di tanti e tanti ragazzi, risultato di un encomiabile lavoro che il Teatro Carlo Felice sta svolgendo con regione e sponsor: c’è chi scomoda l’abbonato veterano per chiedere dove sia finita l’aria della calunnia, chi non si trova con i conti quando il coro si appresta a salutare il pubblico alla fine del secondo atto, chi mette evidentemente il piede in teatro per la prima volta ma vi arriva, in qualche modo, preparato; tutti però dimostrano interesse, nessuno si alza prima che il sipario si chiuda, e se oggi si può investire, ha sicuramente senso farlo sulle nuove generazioni di pubblico.