Quel mulino che continua a girare

di Giuliano Danieli

Alla Wiener Staatsoper torna, a sei anni dall’ultima ripresa, Jenůfa di Leoš Janáček: l’allestimento di David Pountney risulta un po’ freddo, ma la temperatura drammatica si fa più accesa grazie ad un cast vocale di primo livello e alla sensibile direzione di Tomáš Hanus.

VIENNA, 19 ottobre 2022 –È un ottobre all’insegna di Janáček quello viennese: negli stessi giorni, i due principali teatri d’opera della capitale austriaca portano in scena Jenůfa (Wiener Staatsoper) e La piccola volpe astuta (Theater an der Wien), registrando in entrambi i casi una massiccia adesione da parte di un pubblico curioso ed entusiasta. Se la positiva accoglienza ricevuta da La piccola volpe astuta non era del tutto scontata – trattandosi di una nuova produzione, tecnicamente virtuosistica ma a parer mio piuttosto vacua, firmata da Stefan Herheim – il successo di Jenůfa era facilmente pronosticabile: la Wiener Staatsoper ha affidato l’esecuzione dell’opera ad un cast di primo livello e ha riproposto un allestimento di David Pountney già applaudito nel 2002 e in una ripresa del 2016.

In effetti convincono le idee portanti della Jenůfa di Pountney: all’apertura del sipario si resta colpiti dagli imponenti ingranaggi di un mulino (le scene sono di Robert Israel), che ruotano sulle note ostinatamente ribattute dallo xilofono con cui l’opera inizia. Quasi schiacciati da questa macchina inesorabile e gigantesca si muovono i personaggi nel primo atto; poi l’azione si sposta in un granaio e si conclude in un grande stanzone vuoto dalle alte pareti senza finestre. Un’ambientazione che quasi nulla concede al colore locale del villaggio montano descritto dal libretto e da alcune pagine della partitura di Janáček, ma che approfondisce il senso di inumana alienazione comunicato dalla storia di Jenůfa – giovane donna rimasta incautamente incinta, che la pressione di un’asfissiante società patriarcale violenta, consuma, sfigura. Nella medesima direzione (e anche per merito degli interpreti coinvolti) va il lavoro sulla gestualità dei personaggi, in particolare della stessa protagonista, che appare crescentemente irrigidita, quasi a suggerire il suo progressivo decadimento psicologico verso uno stato di immobilità catatonica.

La resa finale dello spettacolo è però fiaccata da alcune scelte opinabili: l’enorme macchina che domina nel primo atto è talmente ingombrante da costringere tutti gli interpreti a muoversi su una porzione limitata di palcoscenico, il che rende involontariamente goffi i quadri più affollati, come quello delle danze che festeggiano il ritorno del giovane Števa, dispensato dalla leva militare. Alcuni momenti topici della vicenda non sono opportunamente valorizzati né dalla recitazione, né dall’uso dello spazio – è il caso della scena in cui Jenufa viene sfregiata dal giovane Laca, innamorato di lei ma inizialmente non ricambiato. E nella loro livida piattezza, che pure vorrebbe essere allucinato espressionismo, le luci di Mimi Jordan Sherin tendono a spersonalizzare eccessivamente il dramma. In altri termini, la resa scenica a volte raffredda eccessivamente la temperatura del dramma e inibisce il dinamismo delle situazioni.

Il quid che manca alla messinscena è compensato dall’ottima interpretazione musicale. Il soprano Asmik Grigorian è pienamente in controllo del proprio strumento; senza eccessi, ma anzi lavorando per sottrazione, essa ritrae una Jenůfa stremata dagli eventi, che nel corso dell’opera attraversa uno spettro assai vario di emozioni: dapprima strafottente verso Laca e in fremente attesa dell’amato Števa, poi sottomessa nei confronti della madre e progressivamente consumata dai tragici eventi. Il suo toccante canto finale con Laca appare più rassegnato che liberatorio.

Efficacissimo il contrasto fra la Grigorian ed Eliška Weissová, che interpretala matrigna di Jenůfa: la sua voce potente fa da contraltare alla delicatezza della figlioccia e s’impone con forza su tutti gli altri personaggi. Convince quindi particolarmente negli scambi severi con l’irresponsabile Števa, che il tenore Michael Laurenz tratteggia, com’è giusto, in maniera quasi grottesca. David Butt Philip è un Laca assai espressivo, che addolcisce gradualmente gli aspri accenti che caratterizzano i suoi primi interventi. Bene il resto del cast e il coro della Wiener Staatsoper. L’orchestra del teatro lavora ottimamente sotto la direzione di Tomáš Hanus. Egli ha ben chiare le traiettorie drammatiche di ciascun atto e calibra in maniera sfumata volumi, dinamiche e colori (magistrale la resa del crescendo che accompagna l’entrata in scena di Števa), dando dell’opera di Janáček una lettura di grande sensibilità e acume analitico, tesa fra momenti di tellurica violenza e oasi di delicato lirismo.