Tornami a vagheggiar

di Francesco Lora

L’opera di Handel torna con Alcina al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: Damiano Michieletto e Gianluca Capuano danno le coordinate allo spettacolo, ma la sua ragione d’essere sta al carismatico rimorchio di Cecilia Bartoli e di Carlo Vistoli.

FIRENZE, 18 ottobre 2022 – Bando all’Umlaut tedesco, cioè al segno diacritico sopra il cognome di Herr Georg Friedrich Händel: naturalizzato britannico, egli si firmò infatti ‘George Frideric Handel’ per la maggior parte della vita. Quando discese dalla Germania in Italia, ventunenne, con meta principale a Firenze, dove era stato invitato dal principe Giangastone de’ Medici, il suo cognome finì invece storpiato in Hendel e a colpire fu meno la sua poetica compositiva che la sua scioltezza nelle lingue straniere. Lingue anche musicali: per il pubblico di Londra egli confezionò un trentennio di opere basate sul più espressivo o virtuosistico melodiare all’italiana, sui metri di danza o sulle danze vere e proprie della tradizione francese, nonché sulla pienezza armonica e la densità strumentale alla tedesca. Tutto è dimostrato meglio che mai nell’Alcina del 1735, opera che in una produzione del Festival di Salisburgo, di tre anni fa, ripensata nella locandina e nell’idea musicale e ridimensionata nell’allestimento scenico, è andata in scena al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, nella Sala Zubin Mehta, per cinque recite dal 18 al 26 ottobre.

Lo spettacolo con regìa di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin, costumi di Agostino Cavalca, luci di Alessandro Carletti e coreografia Thomas Wilhelm sta lì non meno bene che nel luogo del debutto, la Haus für Mozart. Piace per la sua patina ariostesca alla Luca Ronconi. Spiace, invece, poiché, se pure ronconianeggia, sa di un Ronconi minore: costa adulterazioni e fraintendimenti di un testo – dramma e musica – perfetto e completo com’è. Questione teatrale: il Konzept registico verte, più descrivendo che analizzando, come avrebbe detto la zelante professoressa di lettere nel correggere i temi, sulla bellezza fisica che sfiorisce lungo gli anni e lascia cicatrici sul corpo e nella mente; ma di ciò non v’è traccia in Alcina, mentre finisce in terzo piano l’autentico e non meno attuale soggetto dei tre atti: la forza dell’amore coniugale, filiale e amicale, anche davanti alla magia che sconvolge l’ordine della natura. Questione musicale: il lavoro di Michieletto costa, come già a Salisburgo, lo spostamento arbitrario di scene, la soppressione o la mutilazione di pezzi chiusi, la riscrittura drammaturgica della partitura, infine la scelta di interpreti in base alla loro presenza fisica e non alla loro inerenza vocale; tutte cose che il teatro d’opera sei-settecentesco, per chi lo conosce davvero, preclude tanto quanto quello di Rossini, Verdi o Puccini.

Il nodo maggiore, nella ripresa fiorentina, è che il concertatore Gianluca Capuano attua una sorta di michielettizzazione della lettura musicale, la quale poco o nulla ha in verità di filologico dietro l’allodolare specchietto degli strumenti antichi. Già a proposito di Salisburgo si era notato il suo lavoro ipercalligrafico, per esempio quando tutta l’orchestra riprende nei da capo la melodia variata. A Firenze si varca il punto di esasperazione: le variazioni – prepararne in Handel è complesso, poiché la pienezza armonica dell’orchestra limita la libertà di moto della voce – le variazioni, si diceva, sono qui indotte anche a prezzo di disperdere o banalizzare la melodia originale, e di svolgere la parte strumentale, nella ripresa, con tanti e tali capricci timbrici, agogici e dinamici da ribaltarne il senso oggettivo. Ciò si può fare una tantum, per curiosità di saggiare il risultato e compiacersi del fàmolo strano; ma sarebbe grave se l’operazione, camuffata dietro lo storicamente informato, venisse a costituire un modello di prassi. Il musicologo prestato alla critica musicale si accontenterebbe, del resto, di segnalare che lo spensierato uso alternativo di violini, oboi e flauti a becco, praticato sempre da Capuano, manca anch’esso di liceità, e più fa danno col sabotare la semplicità di prassi, ascolto ed esecuzione, di quanto non affascini insistendo a mutare colori. In un mondo ideale, dove ci si fidi dell’autore e dei giusti usi del passato, tale policromia dovrebbe spettare non alle file strumentali dei Musiciens du Prince di Monaco, bensì all’abilità di fraseggio, in parole e musica, dei cantanti coinvolti.

Netta è la frattura tra la prima donna e il primo uomo, da una parte, e quasi tutto il resto della compagnia di canto, dall’altra. Cecilia Bartoli, Alcina, è signora, fautrice e padrona dell’intera operazione: ha autorità attoriale per cavalcare istrionicamente a suo pro le bizzarrie del regista e del direttore; minia i recitativi con la peculiare affettazione che le colleghe straniere tentano invano d’imitare; anche nello sgranare semicrome rimane la maestra di tutte e tutti, ma questa partitura gliene richiede in scarsa misura, ed ecco allora che si ammira la rifinitezza e la comunicativa del cantabile. (Un segreto, per inciso: non è vero che la spumeggiante aria «Tornami a vagheggiar», conclusiva dell’atto I, sia stata tolta senza pudore da Joan Sutherland alla parte di Morgana, nel Novecento, per abbellire abusivamente quella protagonistica; già alla prima ripresa dell’opera, Handel l’aveva infatti riassegnata alla prima donna, Anna Maria Strada del Pò: registi e direttori farebbero dunque il gioco di filologi e melomani se, alla prossima Alcina, conferissero il brano alla Bartoli.)

Accanto alla prima donna si deve ora dire del primo uomo, ossia di chi sostiene la parte di Ruggiero, concepita per Giovanni Carestini, l’arcirivale di Farinelli: una parte sopranile benché poco sfogata, sovrabbondante di arie in ogni registro di affetti, con un versante d’espressione pari a quella di Alcina e con uno virtuosistico persino più esigente. In essa Carlo Vistoli compie il gesto forte di imporsi come il massimo controtenore italiano mai documentato, e ciò in ragione non solo della cospicuità di estensione, risonanza e risorse tecniche – emissione legata e omogenea, timbro luminoso e nobile, fiati dalla generosa campata: un miracolo, per la sua corda – ma anche per l’idiomatica naturalezza di porgere e sfumare, preclusa a chi italiano non è. Se la vede, insomma, sul piano internazionale, ciascuno forte delle proprie virtù, non con altri che Franco Fagioli. Non bastasse, egli ha dalla sua una virile avvenenza di figura, che non passa inosservata al regista: il Ruggiero di Salisburgo, Philippe Jaroussky, era prudentemente tenuto coperto; questo di Firenze, al contrario, è lasciato presto e fruttuosamente in mutande.

Immacolate le prove di Lucía Martín-Cartón, come Morgana, e di Riccardo Novaro, come Melisso; la differenza è che il secondo nobilita con solida linea di canto e pronuncia incisiva l’ultima in gerarchia tra le parti, mentre la prima intona con generica educazione la seconda più esposta e onerosa tra quelle femminili. Kristina Hammarström, come Bradamante, pare accenni e nulla più, mentre Petr Nokoranec, come Oronte, esibisce più simpatia che voce. Erroraccio da matita blu l’aver affidato, come già a Salisburgo e in altre produzioni, l’adolescenziale parte di Oberto, con le sue impegnative tre arie, a un puer cantor tirolese che vi annaspa per fonetica estranea e vocalità impervia: se è vero che creatore della parte fu William Savage, con la sua voce bianca, lo è altrettanto che tale opzione richiede mezzi superiori. Trionfo generale, al carismatico rimorchio della Bartoli e di Vistoli.