Tosca e le buone tradizioni

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma mette ancora in scena uno dei suoi cavalli di battaglia: la produzione di Tosca di Giacomo Puccini, con le scene originali di Adolf Hohenstein (quelle della première), ricostruite per l’occasione, e la regia di Alessandro Talevi. Nel cast spiccano Anna Pirozzi nel ruolo del titolo e l’inossidabile Gregory Kunde in quello di Cavaradossi. La direzione è affidata a Paolo Arrivabeni.

ROMA, 4 novembre 2022 – Come ho avuto recentemente modo di notare parlando dell’ultima Giselle, il Teatro dell’Opera di Roma si sta creando un solido repertorio di spettacoli, classici, riusciti, di quelli che trascinano masse di pubblico in sala. La ricostruzione della première di Tosca, cioè il rifacimento delle scene e dei costumi di Adolf Hohenstein fatto da Savi per le scene e dalla Biagiotti per i costumi, è un’operazione certamente meritoria, ma anche accattivante, che fa leva sul gusto tradizionalista di molta parte del pubblico romano e restituisce alla vita del Costanzi uno spettacolo oggettivamente bello. Delle scene, come pure della regia di Alessandro Talevi, ho avuto già avuto modo di parlare: rimando, dunque, a quanto da me scritto in occasione del battesimo di questa Tosca (leggi la recensione del 2015).

Sul podio dell’odierna Tosca siede Paolo Arrivabeni, direttore di sensibilità tutta italiana, perfettamente versato nel repertorio pucciniano. Il risultato è una vivida, brillante direzione di Tosca. L’orchestra risuona poderosa quando deve, come nello spettacolare finale I (il Te Deum), screziata quando c’è da ricamare sulla tessitura più fine della partitura, come in molti passaggi lirici – in tal senso è forse doveroso ricordare quelli del duetto del I atto fra Tosca e Cavaradossi. Insomma, Arrivabeni dirige tutto bene, con agogica viva, autenticamente teatrale; e fa cantare le voci, permettendo loro di svettare e di armonizzarsi con l’orchestra, che dal canto suo ha una serata di grazia.

La Tosca di Anna Pirozzi è molto ben riuscita. Dotata di una voce piena, svettante negli acuti, la Pirozzi è però in grado di conferire colore ai filati, ai passaggi, sempre curati ed espressivi. Splendido, in tal senso, il duetto del I atto («Non la sospiri la nostra casetta»), come pure quello, misto di dolore e dolcezza, del II («Il tuo sangue o il mio amore»), nella cui chiusa i due cantanti creano un potente e impressionante unisono. Applauditissima la sua celebre aria, «Vissi d’arte, vissi d’amore», in cui la Pirozzi gioca con agio con colori e volumi, creando una linea di canto liricamente vibrata, duttile ed uniforme. Anche il suo personaggio è ben riuscito in scena. Il Cavaradossi di Gregory Kunde è, del pari, un personaggio ben scontornato e vocalmente straordinario. Kunde, che si trova oramai nella parte finale della sua carriera, mostra ancora un invidiabile smalto vocale, che gli rende agevole un recitativo stentoreo e ben tenuto, caratterizzato da quel suo timbro chiaro e dal largo vibrato che sono le firme della sua vocalità. Fin da «Recondita armonia» Kunde si distingue per bellezza del fraseggiare, coniugata ad una naturale tensione verso la corda acuta del tenore, che lo rende un ottimo interprete per Cavaradossi. Oltre ai già citati duetti con Tosca, si pensi solo alla serie di acuti che Kunde inanella nel II atto, all’annuncio della vittoria di Napoleone a Marengo: la voce svetta acuta, penetrante. Testimonianza dell’arte di Kunde è anche la sua celebre aria, «E lucevan le stelle», in cui il cantante si concentra su delicate mezzevoci, donando splendidi colori. Una spanna sotto i suoi colleghi è lo Scarpia di Giovanni Meoni, non tanto per la resa scenica del personaggio, che anzi è convincente, quanto piuttosto per la performance vocale. Certamente, Meoni ha il timbro per un buon Scarpia, scuro e cupamente vibrato; il problema è l’emissione, che talvolta non sempre l’assiste, e un certo canto monocolore sia nei recitativi che nella sua aria, «Ha più forte sapore» (II atto). Ciò detto, diversi passaggi pregevoli Meoni li tira fuori soprattutto nel I atto, nella concitata scena che precede il Te Deum. Alberto Abbondanza è un ottimo Sagrestano, sia sul piano recitativo che su quello vocale; ha, peraltro, il merito di non indulgere alle trite movenze che la tradizione interpretativa del personaggio si porta dietro come un fardello, ma di donare una lettura più personale, ma non certo priva di intelligenti sfumature. Eccellenti tutti i comprimari: Luciano Leoni (Angelotti), Didier Pieri (Spoletta), Daniele Massimi (Sciarrone), Alessandro Fabbri (Carceriere). Una menzione a parte merita il delizioso stornello romano intonato da Miriam Noce nei panni (retroscenici) di un pastorello, nella notturna apertura del III atto. Anche il coro dell’Opera di Roma, in tutte le sue componenti, fa molto bene: il finale I, il già citato Te Deum, è un momento splendido. Meritati, dunque, i generosi applausi finali.