Divieto d'amare

di Roberta Pedrotti

Grande successo per la ripresa a Bergamo dell'Aio nell'imbarazzo per la prima volta in edizione critica. Spiccano, ad affiancare i ragazzi della Bottega Donizetti, le prove di Alessandro Corbelli e Alex Esposito.

BERGAMO, 20 novembre 2022 - Solo due anni separano Chiara e Serafina (1822) dall’Aio nell’imbarazzo (1824), ma che differenza! Merito senz’altro del libretto di Jacopo Ferretti, però anche di un Donizetti che ha ormai affinato i ferri del mestiere. Per quel che concerne il testo, versi colti e spiritosi insaporiscono una commedia ben congegnata, paradossale ma non troppo, con un padre misogino e sessuofobo che reprime i figli affidandoli a un precettore serio ma buono (il papà di cognome fa Antiquati, l’aio Cordebono: nomina omina) con una educazione talmente rigida che alla prima occasione il minore si fa irretire dalle mature grazie della governante, mentre il maggiore addirittura mette su famiglia con la vicina di casa, coetanea bella e intelligente. Questa combattiva Gilda, figlia di un militare, che si introduce nel maniero del nemico delle donne forte di astuzie affinate anche con la lettura e infine canta il trionfo del potere femminile (“siamo serve, ma regniamo: siamo nate a comandar”) ricorda molto, in effetti, una versione borghese della Matilde di Shabran che pochi anni prima Ferretti aveva scritto per Rossini (“femmine, siamo nate per vincere e regnar”). E si dice rossiniana anche la musica di Donizetti, se non altro perché aggiornata all’uso e al gusto corrente, a una saggia economia di mezzi che sviluppa e mette in piena luce l’invenzione melodica, completa l’effetto teatrale imprimendosi nella memoria. La personalità del bergamasco, tuttavia, è già ben definita dell'orchestrazione e nel trattamento del canto.

Da qui, se non una fortuna che si possa paragonare a quella dell’Elisir o Don Pasquale, perlomeno una storia esecutiva che ha determinato diversi assetti, nuovi pezzi alternativi, una versione napoletana (Don Gregorio, già visto a Bergamo), riprese spassose ma testualmente assai libere (quella torinese con Dara, Corbelli e Serra diretti da Campanella). A porre ordine arriva l’edizione critica di Maria Chiara Bertieri, che ci restituisce l’assetto originario del testo, con tanti dettagli preziosi e una struttura teatralmente efficacissima. Anzi, è l’occasione per mettere in guardia dalla diffusa bulimia delle appendici: i pezzi alternativi e opzionali vanno inseriti solo cum grano salis, considerando che il più delle volte non sono aggiunte ma sostituzioni e che sempre devono essere ben motivati dal contesto. Nel caso dell’Aio, ci sono numeri scritti in seguito come i duetti “Nelle camere soletta” (dove Gilda e Leonarda si punzecchiano come Susanna e Marcellina) o “Come un asino, maestro” (irresistibile interrogazione di latino a Pippetto) o l’aria del marchese Antiquati “A chi dei figli, oh credulo”, tutti bellissimi, ma che potranno essere ascoltati in altre occasioni, sempre rispettando gli equilibri interni, ché non ha sempre senso eseguire “tutto”. Ha senso eseguire un buon pezzo di teatro secondo le indicazioni degli autori.

E a proposito di senso e di buon teatro, sarebbe facile fare dire a chi (per esempio la sottoscritta) fin dall’adolescenza ha imparato a memoria il libretto di Ferretti come archetipo comico fra i favoriti che intorno a esso non serva nessuna ulteriore costruzione drammaturgica. Poi si va a teatro, si vede quest'Aio nell'imbarazzo e alla prova dei fatti funziona, piace, diverte tutti (tranne, forse, l’impaziente signore che dopo pochi minuti urla “non si capisce nulla”). D’altra parte, si parla di alienazione, gioventù reclusa senza possibilità di sperimentare la vita reale, di tentativo vano di controllo della sfera sessuale e sentimentale, di conflitti fra generazioni: basta poco a farlo sembrare datato, ma il richiamo attuale è, in realtà, servito su un piatto d’argento. Il regista Francesco Micheli (complice il suo drammaturgo Alberto Mattioli, nonché lo scenografo Marro Tinti, la costumista Giada Masi, Peter van Praet per le luci, lo studio Kemp ed Emanuele Kabu per video e animazioni) ci mostra fin nel prologo fuori dal teatro e nell'ouverture un antefatto che era facile immaginare, con il fallimento del matrimonio del marchese a incidere sulle sue scelte nell’educazione dei figli. Poi, dato che l’azione si proietta nell’immediato futuro, si aggiunge che l'aio Don Gregorio sarebbe in ex influencer creatore del più fortunato e potente dei social network, poi alleato politico dell’Antiquati (lo dice anche Ferretti che deve “incontrare il ministro”). Et voilà, siamo subito in clima da Black Mirror (avete presente, per dirne uno, l’episodio Caduta libera?), ma a lieto fine, dato che Gilda rompe il circolo vizioso di alienazione e negazione, riporta tutti alla vita reale e con la sua determinazione arriva al Quirinale.

Le caratteristiche della commedia rendono naturalissima, quasi necessaria anche la distribuzione del cast, con i giovani e Leonarda affidato agli allievi della Bottega Donizetti, mentre il marchese Don Giulio Antiquati e il precettore Don Gregorio Cordebono sono i veterani, rispettivamente Alessandro Corbelli e Alex Esposito. Artisti diversi, di diverse generazioni e di forte personalità, sono senza scampo i cardini carismatici dello spettacolo. Corbelli è un monumento di intelligenza, musicalità, cultura del teatro e del canto. Si sa, ma ogni volta riesce a sbalordire, anche a dispetto del trascorrere del tempo, che può accorciare un fiato, ma non scalfisce la classe, l’emissione, la precisione della nota e l’intenzione chiara della parola. Tanto più se si pensa alla sua storica incisione degli anni '80, risentendolo in gioco con questa parte in edizione critica e con uno spettacolo radicalmente nuovo, la prova di Corbelli entusiasma fino alla commozione. Da vero grande, poi collabora e non sfida il collega più giovane ma parimenti veterano. Alex Esposito canta con pienezza di mezzi, diverte senza bisogno di sottolineare nulla e la dedizione fisica totale dell’attore non eccede la misura né pregiudica mai l’emissione, ma dà in ogni momento vivida forma a quanto scritto da Ferretti e Donizetti.

Per i ragazzi della Bottega senz’altro due esempi e due sostegni importanti, che galvanizzano tutto lo spettacolo nel giusto passo, né disturba, anzi ha senso drammatico, se si tratta talora di voci un pochino acerbe e meno ampie. La Gilda di Marilena Ruta , per esempio, si fa apprezzare per la precisione e il temperamento piccante; Francesco Lucii ha da venire a capo con una tessitura acutissima modellata per Savino Monelli (il primo Lindoro dell’Italiana in Algeri), ma lo aiuta il carattere non proprio perentorio di Enrico, il figlio maggiore che passa di fatto dall’autorità paterna a quella della moglie; Lorenzo Martelli ha timbro più scuro, e ciò gli dà facile appiglio per enfatizzare la comicità di Pippetto, ben abbinato alla Leonarda di Caterina Dellaere, che si allinea a un’idea condivisadi comicità che non ha bisogno di caricature.

Con il coro Donizetti Opera ben preparato da Claudio Fenoglio ma forse, con i suoi tredici elementi, a ranghi un po' troppo ridotti per l'acustica del Donizetti, citiamo anche Simone (Lorenzo Liberali) e i figuranti principali: dai piccoli Vittorio Giuseppe Degiacomi (Bernardino) e Alessandro Sironi (Enrico bambino) all'ex signora Antiquati Silvia Lorenzi e al suo amante Mattia Agatiello. I recitativi sono affidati ad Hana Lee, mentre in Chiara e Serafina sedeva al cembalo Umberto Finazzi: peccato che, come filologia vorrebbe, nessun violoncellista li abbia affiancati.

Sul podio Vincenzo Milletarì asseconda il ritmo sgargiante dello spettacolo, puntando anche sugli scatti repentini delle strette. L'orchestra Donizetti Opera si getta ruspante nella mischia e in un turbinìo di luci e costumi variopinti il pubblico del Donizetti festeggia con calorosi applausi per tutti e meritate punte di entusiasmo per Corbelli ed Esposito.