Monumento vocale

di Luigi Raso

Dominano incontrastate le voci nel Rigoletto proposto in forma di concerto al Politeama per la stagione del San Carlo di Napoli. Anche in assenza di impianto scenico e regia, Ludovic Tézier e Nadine Sierra plasmano due personaggi memorabili per incisività di fraseggio e interpretazione.

NAPOLI, 15 gennaio 2023 - Che sarebbe stata la serata del trionfo della musica, del canto tout court e delle “grandi voci” lo si è intuito da subito, sin dagli applausi calorosi che si sono sovrapposti alle ultime battute delle arie più celebri, dalle richieste di bis (per la cronaca: concessi due, anzi, uno e mezzo, come diremo tra poco), dal calore del pubblico del turno A, solitamente restio a spellarsi le mani per gli applausi. Al termine, un autentico trionfo per questo Rigoletto, proposto dal Teatro San Carlo nella poco (è un eufemismo!) confortevole sala del Teatro Politeama: quella meravigliosa del Niccolini, infatti, resterà chiusa fino alla fine di marzo per rifarsi il look, a soli quattordici anni dall’ultimo radicale restauro; ma tant’è.

E così, nell’esilio temporaneo di Monte di Dio (in realtà poche centinaia di metri dal San Carlo), al Politeama, questa produzione di Rigoletto è solo l’ultima in ordine cronologico a registrare un convintissimo successo. Nel recente passato, vi abbiamo raccontato di analoghi successi per opere proposte con la medesima formula esecutiva: Il trovatore nell’estate del 2021 (qui la recensione), La sonnambula nel gennaio 2022 (qui la recensione ) e I puritani nel settembre dello scorso anno (qui la recensione). Ci sono da registrare delle costanti, che si riscontrano in queste produzioni: la prima, l’opera eseguita in forma di concerto.

La presenza di grandi voci – giusto per citarne qualcuna: Netrebko, Oropesa, Salsi, Eyvazov, Pratt, Demuro, Rachvelishvili, e altre – ha supplito all’assenza dell’impianto scenografico e del disegno registico con il carisma delle personalità degli artisti e con movimenti scenici tanto spontanei, quanto appropriati e ricercati da parte di tutti, ai quali spesso si è aggiunta una mimica facciale da consumati attori teatrali. Altra costante da registrare: le suddette esecuzioni sono state tra le più applaudite degli ultimi anni, nonché quelle durante le quali più intesa e frequente è stata la richiesta e la concessione di bis.

Sono, queste, constatazioni obiettive, non considerazioni sulla bontà e opportunità di rappresentare opere in forma di concerto, che resta uno spettacolo monco degli essenziali aspetti della regia e dell’impianto scenografico-costumistico. Ma vien da riflette sulla circostanza che queste esecuzioni – sarebbe più corretto classificarle come in forma semi scenica, data l’evocazione dell’azione drammatica realizzato con gesti, mimica facciale, sguardi penetranti, ecc – esaltino maggiormente una componente essenziale e imprescindibile del teatro in musica, le voci; che, i costanti trionfi finali derivino (probabilmente) dalla prolungata catalizzazione dell’ attenzione del pubblico sull’aspetto vocale dello spettacolo operistico. 

E anche in questo Rigoletto di grandi voci v’è gran profluvio, a cominciare dal monumentale, plastico, potente protagonista di Ludovic Tézier: cercare gli aggettivi per definire la prova del baritono francese è, per questa serata, davvero complicato. La sua prestazione ha condotto chi vi scrive e gran parte del pubblico nel terreno dell’emozioni più vive, in quel campo minato di sensazioni che, provando a descriverle, rischia di farci cadere nel banale o, peggio, nel ridicolo.

Partendo da una vocalità compatta, generosa, timbratissima, omogenea e ricchissima di armonici al cui solo ascolto ci si bea, da un’emissione varia e come sempre nobile, Ludovic Tézier ha fatto di Rigoletto un gigante: il buffone scolpito dallo straordinario baritono francese è un condensato di meschinità, un essere moralmente squallido come il Duca di Mantova, ma che al tempo stesso non abiura a quella nobiltà di padre prima affettuoso, poi, come un leone ferito, ciecamente vendicativo e, infine, colpito nell’affetto più caro, tragicamente rassegnato.

È paragonabile a uno dei Prigioni di Michelangelo il Rigoletto di Tézier, per quanta forza drammatica, accenti, energia, autentico pathos, intelligenza interpretativa, sfumature vocali e psicologiche abbia immesso nell’immedesimarsi nel personaggio.

Scontato, con queste premesse, che il suo “Cortigiani, vil razza dannata”diventi la gemma di un’interpretazione capolavoro, analitica, una prova meravigliosamente cantata, grazie a mezzi fuor dell’ordinario e a un’ottima forma vocale, ma soprattutto profondamente interiorizzata dall’intelligenza interpretativa dell’artista.

I lunghi applausi che salutano l’invettiva di Rigoletto testimoniano l’eccezionalità della prestazione; viene richiesto il bis e Ludovic Tézier lo concede, ma “a metà”, ripartendo da “Miei signori... perdono, pietate”, accorato, dolente; in una parola, emozionante.

A contribuire significativamente al grande successo della serata c’è poi la meravigliosa Gilda di Nadine Sierra.

Chi scrive la ricorda, debuttante in Europa, proprio nei panni della figlia di Rigoletto nel lontano maggio 2013: già allora si gridò al miracolo ascoltando quel giovanissimo soprano statunitense che incantò il pubblico del San Carlo; a distanza di quasi dieci anni, la Sierra è un'artista che ha ancor più le carte in regola per affrontare Gilda.

Voce del timbro malioso, di bellezza pari all’avvenenza fisica, pieno, emissione sempre ben controllata, fraseggio screziato, facilità a toccare (e sfumare) acuti, buona articolazione della frase musicale; insomma, Nadine Sierra, per fascino timbrico e per eccellente organizzazione vocale, è una di quelle “voci - strumento” sempre perfettamente a fuoco. Ma, oltre le qualità vocali, c’è molto altro: a galvanizzare gli ascoltatori è l’interprete che sa ben declinare e interpretare vocalmente l’evoluzione psicologica di Gilda. Tenera ragazzina attraversata dai primi sussulti amorosi nell’atto primo, diventa una donna appassionata nell’atto secondo dopo aver subito la violenza, folle d’amore; e infine eterea, angelicata, nel timbro e nell’emissione alleggerita nell’ultimo atto. Ad ogni atto Nadine Sierra assegna a Gilda una vocalità, il giusto peso vocale; “Caro nome” emana candore virgineo; “Tutte le feste al tempio” e i duetti con il padre dell’atto secondo sono dolenti: la risposta all’invettiva che invoca vendetta è pervasa da sincera umanità e invito al perdono. È già in un’altra dimensione, invece, nell’etereo, impalpabile “V'ho ingannato, colpevole fui”.

Perfetta, poi, la sintesi, vocale e di gestualità, che crea in scena con il Rigoletto di Ludovic Tézier: con una coppia vocale simile, in stato di grazia, affiatati e, forse, galvanizzata dal palpabile, ininterrotto e discreto entusiasmo del pubblico, l’esito finale non poteva che essere dei più emotivamente incendiario. A loro due, infatti, il pubblico chiede a gran voce di bissare “Sì, vendetta, tremenda vendetta”: richiesta esaudita, con tanto di sovracuto (ri)piazzato dalla bravissima Nadine Sierra.

Nel complesso buona anche la prova di Pene Pati nei panni del Duca di Mantova.

Il giovane tenore samoano, come si notò in occasione della Lucia di Lammermoor del gennaio 2022 (qui la recensione: https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/70-opera/opera-2022/12780-napoli-lucia-di-lammermoor-18-01-2022 ) al fianco della Lucia di Nadine Sierra, possiede ottimo materiale vocale, timbro generoso e suadente, accenti di rara intensità; tuttavia, questi mezzi vocali indubbiamente baciati da Madre Natura non sono adeguatamente valorizzati e supportati da un’organizzazione tecnica di pari livello. Ed è un peccato, gran peccato: Pene Pati, mettendo a fuoco l’emissione, l’appoggio della linea di canto, migliorando la dizione italiana, garantirebbe alle sfumature, di cui pur farcisce il suo fraseggio, maggiore risonanza e proiezione, e ancor più suggestione. Eppure si resta affascinanti dalla vocalità fresca, spontanea e generosa, dall’innata affabilità di Pene Pati che delinea un Duca guascone, prepotente, ma pur attraversato da dubbi amorosi, capace di piazzare un luminosissimo e lungamente tenuto acuto alla fine della cabaletta dell’atto secondo “Possente amor mi chiama”, così come di sprizzare sprezzante leggerezza in “La donna è mobile”.

Corretto, ben cantato, ma avrebbe necessitato di colore più scuro e profondo lo Sparafucile di Alessio Cacciamani, che si apprezza per la nobiltà della linea di canto, malgrado i panni del sicario che riveste.

Eccellente, per bellezza del timbro, compattezza dei registri, intensità di interprete, la Maddalena di Nino Surguladze: ammaliante e spregiudicata nel canto così come nella recitazione.

Si inseriscono molto bene nell’eccellente quadro generale le parti secondarie, a cominciare dalla Giovanna di Cassandre Berthon, per poi proseguire con il tonante Conte di Monterone di Gabriele Sagona; bene anche il Marullo di Roberto Accurso, così come Matteo Borsa, il Conte di Ceprano, la Contessa di Ceprano, l’usciere di Corte, il paggio della Duchessa, rispettivamente Li Danyang, Ignas Melnikas, Costanza Cutaia, Giovanni Impagliazzo, Marilena Ruta, allievi, questi ultimi cinque, dell’Accademia del Teatro di San Carlo.

La responsabilità musicale è affidata al giovane (classe 1991) Lorenzo Passerini, il quale è bravo nell’assicurare un’esecuzione generalmente corretta e pulita del capolavoro di Verdi; la sua lettura si fonda su tempi tendenzialmente spediti e appropriati all’evoluzione di quel capolavoro di drammaturgia musicale che è Rigoletto.

Passerini ha l’indubbio merito di garantire discreto equilibrio sonoro tra cantanti, orchestra e coro, nonostante l’acustica del Teatro Politeama sia estremamente problematica.

La difficile “gestione” dell’acustica, quindi, è un punto da segnare a favore del concertatore.

Chi scrive era seduto in platea, nelle prime file di poltrone: da quella posizione il peso delle voci era tanto predominante che si sovrapponeva eccessivamente al suono dell’orchestra e del coro, pur rimanendo le due compagini udibili.

L’effetto, per provare a rendere l’idea, era quello che si riscontra in certe incisioni DECCA degli anni ’50, in particolare quelle costruite intorno alla coppia Mario Del Monaco e Renata Tebaldi e dirette da Alberto Erede: voci in primissimo piano, orchestra eccessivamente in secondo piano.

Tornando alla lettura di Lorenzo Passerini, si notano tempi calibrati sulle esigenze dei cantanti, al pari dei rallentando e dei rubati; le voci sono accompagnate con cura. Le cabalette sono complete di riprese; per le star ci sono le gratificazioni degli acuti da tradizione.

Tuttavia, alla gestualità del direttore, alquanto enfatica, purtroppo non corrisponde sempre un’equivalente forza drammatica da imprimere alla concertazione.

L’Orchestra del San Carlo si dimostra compagine affidabile come sempre, precisa in tutte le sezioni; e Rigoletto è partitura nel suo repertorio e DNA: il risultato è eccellente, al netto delle difficoltà acustiche.

Discorso analogo per il Coro guidato magistralmente da José Luis Basso: nonostante gli squilibri dell’acustica di cui si è accennato, quella del Coro è una prova magistrale per precisione, idiomaticità, attenzione ai colori - si pensi al breve, incisivo e drammatico intervento a bocca chiusa durante la tempesta che letteralmente “dipinge” l’intero terzo atto - prescritti da Verdi: si ricorda la precisione e la compattezza dei repentini crescendo nel sussurrato Zitti, zitti, moviamo a vendetta”; ma questo è solo uno dei momenti di una prestazione superlativa per coesione e perfetto amalgama degli interventi corali nel corso dello spettacolo.

Come detto in apertura, è un trionfo – e il termine per questa serata, si creda, non è abusato – quello che il pubblico del San Carlo, in momentanea sofferta trasferta al Politeama, decreta per questo Rigoletto. Ovazioni meritatissime per Nadine Sierra e, in particolare, per il monumentale Rigoletto di Ludovic Tézier.

È stata un festa di grande musica, percorsa da un debordante e giustificato entusiasmo da parte di tutti i partecipanti.

Viva Verdi!