Caro Elisir

 di Stefano Ceccarelli

Torna al Teatro dell’Opera di Roma L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti, nella regia di Ruggero Cappuccio: uno spettacolo che è in cartellone al Costanzi oramai da più di un decennio. Sul podio fa il suo esordio Francesco Lanzillotta, donando una lettura convincente. I due ruoli principali, Adina e Nemorino, sono sostenuti rispettivamente da Aleksandra Kurzan e John Osborn.

ROMA, 15 gennaio 2023 – L’elisir d’amore è un’opera deliziosa e giustamente amata dal pubblico; Gaetano Donizetti si lascia andare, nel musicare un libretto tratto da una fortunata opéra-comique parigina (Le philtre di Scribe), a scene gioiosamente villerecce e ad arie di intenso melodiare, riuscendo a dare vita ad un’opera indimenticabile, una tipica miscela romantica di melodie vivaci e malinconiche. Questa produzione è una ripresa di uno spettacolo che è in repertorio al Costanzi dal 2011 e che ha già avuto una ripresa nel 2014.

L’aspetto che continua meno a convincermi di questa produzione è proprio quello registico. Non avendo molto da aggiungere, ripropongo qui di sèguito (con lievi modifiche) quanto da me scritto riguardo alla messa in scena del 2014 (https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/12-opera/486-roma-l-elisir-d-amore-13-05-2014). Nella regia di Ruggero Cappuccio i cantanti sono lasciati quasi all’improvvisazione, cercando di fare il loro meglio per stare dietro ad alcune scelte che, francamente, sfiorano il ridicolo; in particolare, i loro passettini di danza devono sempre sottolineare ogni texture ritmica e coreutica della partitura, svilendone il contenuto autenticamente frizzante. Pure l’idea degli acrobati e saltimbanchi (tutti bravissimi, peraltro), a lungo andare stanca: fanno prodezze di ogni genere (capriole, verticali, trampoli ecc.), ma in fin dei conti mal celano l’assenza di una consistente idea registica che viene ambientata in una sorta di atemporale tana del Bianconiglio, perennemente in preda al caos, schizofrenicamente in movimento. Dicevo, a lungo andare stanca, e non poco. Ma le ‘follie’ registiche sarebbero troppe a elencarsi: Adina che, dopo aver letto a alta voce qualcosa che stanno leggendo tutti (contadini analfabeti!) con una bislacca lampada, strappa le pagine del suo libro; la boccetta dell’elisir attaccata mediante una cordicella all’astronave di Dulcamara, che crea più problemi di spostamento che altro; e si potrebbe continuare… Ma, anche in una regia a dir poco approssimativa, qualche fiore d’intuizione si può trovare. La scena in cui Giannetta informa le amiche del coro della nuova eredità di Nemorino è spassosa (tutte si specchiano, vanesie, e ballano un piccolo can-can); o il colpo di teatro dell’arrivo di Dulcamara in un’astronave triangolare, da dove esce accovacciato, fingendosi un nano – per cantare da questa posizione si deve essere assai bravi.

L’idea scenica (Nicola Rubertelli) in sé potrebbe essere interessante, ma risulta alla lunga un po’ monotona. Il primo tableau è il migliore: casupole in lontananza, una scena inondata di bianco, un’apertura verticale al centro dal cromatismo cangiante (lilla o viola), dove si proietta un sole. Piacevoli, anche se forse troppo astratti per un’opera del carattere di Elisir, sono i pannelli, illuminati di vari colori, che dividono la scena, per esempio durante il duetto di Adina e Nemorino nel I atto. Il secondo tableau è più caratterizzato in senso circense, con qualche nota cartoon, come i galli e le nuvole appese in aria e circondati di lampadine, a mo’ di insegna. I costumi (Carlo Poggioli), i cui colori si stagliano sul neutro del bianco, hanno qualche interesse, come l’uso di tovaglie di plastica con motivi fioriti per le donne; quelli maschili sono più ordinari e le uniche note di colore risultano Belcore in divisa rossa e Dulcamara abbigliato eccentricamente.

A distanza di più di un decennio, dunque, lo spettacolo di Cappuccio non lascia allo spettatore altro che qualche scena azzeccata. Fortunatamente, c’è la splendida musica di Donizetti, peraltro assai ben interpretata e diretta da Francesco Lanzillotta, al suo debutto nel maggior teatro romano. Lanzillotta crea un ottimo rapporto fra la buca e il palco; inoltre, è agogicamente sempre frizzante, staccando bene, non perdendo mai l’energia della partitura e calibrando l’orchestra del Costanzi ad un buon volume sonoro. L’orchestra segue bene il direttore: dalla buca vien fuori un suono pastoso, dove spiccano gli interventi dei corni e dei legni, elementi sonori che donano quel carattere inconfondibilmente pastorale alla partitura. Nel cast vocale brillano le voci femminili. Aleksandra Kurzak è, infatti, un’Adina deliziosa, non solo sul piano vocale, dove sfoggia una voce piena ed uniforme, duttile e morbida (ma mai volatile) nella parte acuta; ma anche su quello attoriale, recitando un’Adina smaliziata, furba, ma alla fine dolce e sincera – chi ha avuto la possibilità di notare le sue espressioni facciali se ne sarà reso conto. Il personaggio di Adina, dunque, è spaginato nella sua interezza; testimonianza ne sono sia la cavatina, «Della crudele Isotta», dove la Kurzak gioca sui colori vocali, appoggiandosi sul cullante accompagnamento orchestrale, sia la sua ultima aria, «Prendi; per me sei libero», in cui la cantante dà prova di un fraseggio ampio, espressivo, pura esaltazione della dolce melodia donizettiana. Lo stesso dicasi del cantabile del duetto del I atto con Nemorino, «Chiedi all’aura lusinghiera», dove la Kurzak mostra questa sua argentina qualità della voce, mai indurita nella tessitura acuta; caratteristica che le rende facile le fioriture acute in passaggi vivaci come la cabaletta del suddetto duetto («Per guarir di tal pazzia»). Si parlava di voci femminili: quella di Giulia Mazzola, oltre ad essere morbidamente intonata, è anche piena ed espressiva, tanto da far rimanere impressa la sua Giannetta, godibilissima nella scena IV del II atto, quella in cui comunica alle compaesane dell’eredità recentemente acquisita Nemorino, scatenando una caccia al buon partito. Per quanto riguarda i ruoli maschili, invece, è forse bene fare qualche distinguo. John Osborn, infatti, belcantista d’esperienza, pur donando un’apprezzatissima interpretazione di «Una furtiva lagrima», tanto da bissarla, non dona un’interpretazione altrettanto convincente se si guarda all’intera lettura di Nemorino. Talvolta, soprattutto nel I atto (come nella cavatina «Quanto è bella, quanto è cara!»), risulta lievemente sottotono, come pure, in particolare, nei recitativi; anche l’emissione vocale appare un po’ più indebolita in qualche passaggio. Al netto di tutto, comunque, non si può certo dir male del Nemorino di Osborn; il cantante regala più di un acuto centrato, frasi ben tornite (soprattutto nelle parti più liriche dei duetti) e una recitazione di tutto riguardo. Il problema sta nella resa generale, più episodica che costante. Come dicevo, la «Furtiva lagrima», cantata a fior di labbra, giocando coi volumi ed i colori, è talmente apprezzata da essere bissata; ma si pensi, pure, all’energia con cui canta l’arioso «Poiché non sono amato». Non mi ha convinto appieno neanche il Belcore di Alessio Arduini, non tanto per il fraseggio, autenticamente belcantistico, quanto nel volume vocale, talvolta poco incisivo; la sua cavatina, «Come Paride vezzoso», mostra bei colori ma potrebbe risultare, appunto, più frizzante ed incisiva. Straordinario, per mimica attoriale e virtuosistica resa vocale, il Dulcamara di Simone del Savio. Grazie ad una voce timbricamente squillante, duttile, del Savio riesce a rendere tutta l’espressività funambolica del personaggio: notevolissima sia l’esecuzione della cavatina, «Udite, udite, o rustici», sia il duetto con Nemorino (I atto), di cui si può citare la frizzante cabaletta, «Va, mortale avventurato».

Insomma, un Elisir certamente più da ascoltare che da guardare, ma comunque, oramai, un caro Elisir (mi si perdoni l’ingenua citazione) per il pubblico romano, che in fin dei conti viene a vederlo soprattutto per passare qualche ora, assistendo ad un’opera divertente e musicalmente magnifica. Proprio per questo, alla fine gli applausi sono stati convinti e sonori.