Gatti e Verdi, ripartire da zero

di Francesco Lora

Don Carlo al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha una componente teatrale, con regìa di Roberto Andò, subito oscurata da quella musicale: la concertazione di Daniele Gatti vale a riavviare la storia esecutiva di questo capolavoro verdiano, complice il canto di Francesco Meli ed Eleonora Buratto (e pur nel successivo tracollo di casting).

FIRENZE, 27 dicembre 2022 e 8 gennaio 2023 – C’è ancora spazio per qualche parola sul recente Don Carlo di Verdi a Firenze, quello col quale è stata riaperta la sala grande del Teatro del Maggio Musicale, dopo mesi e mesi di lavori per rinnovare la tecnologia della macchina scenica? Se non ci fosse da fare i conti col dovere di cronaca, converrebbe per la verità saltare in toto il resoconto sul nuovo allestimento con regìa di Roberto Andò, scene e luci di Gianni Carluccio e costumi di Nanà Cecchi: manca lo spessore celebrativo di spettacolo che illustri le possibilità del nuovo palcoscenico; manca un’idea drammaturgica degna dei pur illustri professionisti riuniti in locandina; manca il lavoro con gli attori e così pure, qui e là, il senso dell’opportuno e del plausibile. Si vuol dire che l’impostazione registica data, tradizionale e quasi oleografica, se la vede male al confronto non solo con un Luchino Visconti, nel quale la realistica cura dei dettagli era maniacale, ma anche con le didascalie medesime nel libretto, siano esse passivamente realizzate o blandamente rivisitate. Un esempio: nella versione milanese in quattro atti, del 1884, qui adottata, l’atto I si conclude con la romanza di Elisabetta di Valois, cui il re e consorte Filippo II ha appena scacciato la dama di compagnia, indi col duetto ove l’inaccessibile re di Spagna e il ribollente marchese di Posa si affrontano e confidano su scabrosità politiche e affetti familiari; già così c’è materiale a sufficienza per saturare la scena di vivo dramma; nello spettacolo in oggetto, al contrario, si vede pleonasticamente entrare un monaco con scrittoio portativo, e Filippo firmare grandi codici che gli vengono via via recati: intinge il calamo nell’inchiostro, una sola volta, e poi scrive a volontà, come se abbia in mano un’inesauribile penna a sfera e si stia dilungando sul libro degli ospiti, anziché siglare col secco «Io el Rey» dei monarchi spagnoli; l’inchiostro dovrebbe poi essere lasciato asciugare: ed ecco invece il monaco che chiude svelto il codice e se lo porta via, mentre i bibliofili in sala sudano al pensiero del nero pataccone tra carte. La viscontiana cura dei dettagli, si diceva: se non si è in grado di reggere il peso dell’imitazione storica, meglio non avventurarsi nelle insidie della recita in costume. E al di là del fantasma viscontiano: se l’incarico è quello di portare in scena un capolavoro ineffabile del teatro d’opera, Don Carlo, per giunta in un’importante circostanza istituzionale, non ci si può presentare a mani tanto povere davanti a una platea gremita ed esperta.

Il dovere di ricordare questo Don Carlo consiste invece quasi per intero nel miracolo della concertazione musicale. In un mondo ideale, dove le idee, il tempo, le voglie e le energie a disposizione siano infinite, dove le maestranze mostrino dedizione totale, dove il pubblico non debba prendere l’ultimo treno, dove il direttore intenda ripartire da zero e riavviare la storia esecutiva di una partitura santamente venerata, un qualsiasi capolavoro musicale lo si ascolterebbe come appunto s’è ascoltato questo Don Carlo al Teatro del Maggio, e come non lo si ascoltava dai tempi di Herbert von Karajan e Claudio Abbado. Daniele Gatti, il miracoloso concertatore in questione, conduce nota per nota, nessuna preferita e nessuna esclusa, un lavoro di sublimazione sinfonica e inesaustibile estetizzazione del testo operistico; da un’orchestra in letterale stato di grazia cava fraseggi frastagliati e imprevedibili, tenebre e raggi timbrici mai ascoltati prima, controcanti preziosi finora rimasti nascosti, vanitosi effetti – il compiaciuto allentamento dei tempi fino a rasentare una sorta di liquida, celeste immobilità, come nei Parsifal all’italiana; la riduzione dell’ultimo accordo al pianissimo impercettibile, dopo gli inauditi schianti effettivamente prescritti dall’autore – vanitosi effetti, si diceva, che tanto più entusiasmano nel sentore di essere fine a sé stessi: così superbamente battezzati nell’esecuzione, la musica, nonché il teatro, non possono essere sospettati di macchia.

Il nodo da risolvere, dunque, diviene non tanto la compresenza di una componente teatrale subito oscurata da quella musicale, bensì il concorso di cantanti all’altezza della situazione. Vocalmente stanco alla prima recita ma con piene forze all’ultima, Francesco Meli, nella parte eponima, è il trionfo della sfumatura impalpabile, strenua, perciò anche stupendamente temeraria, come Gatti richiede a tutti e a lui, reattivissimo, più che mai: secondo ciò che accade negli spettacoli fuori dal comune, alla memoria rimarrà non la sua romanza di sortita o qualche Si bemolle acuto, ma il legato struggente nel recitativo della scena del carcere, dove alla fiacchezza interiore corrisponde l’avvenenza del canto. L’altra meraviglia canora è Eleonora Buratto: la regina risiede nel suo patrimonio vocale di grana e freschezza impressionanti, mentre il suo porgere, così moderno, restituisce – tanto più dando di che riflettere – l’adolescente mai temprata dal dover portare in capo una corona; insomma l’autentica Elisabetta, come sapevano incarnarla, ciascuna a suo modo, Mirella Freni, Katia Ricciarelli o Daniela Dessì, poi rimasta vacante e ora ritrovata a Firenze. Da qui in avanti, tracollo di casting. Fuori parte – peccato che sia quella, colossale, di Filippo II – Mikhail Petrenko risulta monotamente insensibile alla memorabile parola scenica commessagli, schiarito nel timbro e svigorito nella pasta fino a un’evanescenza tenorile, imperito a legare anche sole poche note in una linea, un colore, un intento comune. Can che abbaia non morde: guai a insultare Alexander Vinogradov col primo verbo, ma il suo Grande Inquisitore, rozzamente tonante, non dà motivo di temere torture psicologiche. Ekaterina Semenchuk, come Principessa Eboli, conta ancora sulla generosità di mezzi naturali che nell’ultimo decennio le ha fatto macinare i grandi ruoli verdiani sotto le massime bacchette; quei mezzi, però, ora paiono in avviato deterioramento, con lo smalto non più lucido e intatto, le note gravi calcate senza utilità, quelle acute non prive di sforzo, il volume stesso non più sorprendente: né in lei si coglie lo spunto che la integri nell’estenuata forbitezza di Gatti. Robusto ma monocorde il Rodrigo di Roman Burdenko, sostituito e superato da un più morbido Massimo Cavalletti all’ultima recita. Il Frate di Evgeny Stavinsky e la Voce dal Cielo di Benedetta Torre vantano le proprie referenze; a stupire è tuttavia Joseph Dahdah, che come Araldo reale deve intonare una singola frase, ma esposta e subdola, e lo fa con radiosa facilità.