Ballo senza maschere

di Antonino Trotta

Al Teatro Carlo Felice di Genova va in scena Un ballo in maschera: se la solida concertazione di Donato Renzetti assicura complessivamente una buona tenuta musicale, nel secondo cast più di un personaggio cede sotto peso del singolo ruolo.

leggi la recensione dell'altra compagnia Genova, Un ballo in maschera, 03/02/2023

Genova, 28 gennaio 2023 – In buca c’è un dramma che scalpita, sul palcoscenico un problema da affrontare: ci sta, per l’eccezionale varietà stilistica impiegata e la micidialità della scrittura vocale Un ballo in maschera di Verdi è sia l’uno che l’altro. Al Teatro Carlo Felice di Genova, però, l’ultima dimensione tende a prevalere sulla prima e, nel complesso, la seconda recita finisce col non convincere appieno.

Alla guida dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova, Donato Renzetti svolge il consueto ottimo lavoro. Maneggiando e dosando con somma sapienza i registri comici e tragici che si alternano in partitura con estraniante immediatezza, Renzetti concerta un Ballo di elegante teatralità, in cui i vari elementi s’incastrano, con senso, alla perfezione. Non si tratta, però, di un Tetris musicale, bensì di un discorso unitario, omogeneo, condotto e articolato con quella dovizia di particolari che la scrittura prevede e il dramma esige. In quest’ottica, il secondo atto è eccezionale: ora per la spiccata ricchezza timbrica, ora per la brillantezza del dettaglio strumentale in primo piano, tra le mani di Renzetti l’orchestra si trasforma nel motore che spinge ed elettrizza tutta l’azione.

Sul palcoscenico, spiace constatarlo, la situazione appare diversa. Maria Teresa Leva affronta il complicatissimo ruolo di Amelia con estrema prudenza: «Morrò, ma prima in grazia» è cantato benissimo – a conferma nella sua natura prevalentemente lirica –, con linea sorvegliata, voce timbrata, bel legato e soprattutto quell’intensità vibrante che francamente le manca nel resto dell’opera. Maria Ermolaeva, invece, è un’Ulrica a dir poco terrificante: tra urla e affondi al petto, non v’è una nota uguale all’altra. Non convince nemmeno l’Oscar di Ksenia Bomarsi, schiacciatina nell’emissione e laboriosa nelle agilità.

Va meglio con gli uomini, a cominciare da Angelo Villari che si rende protagonista di una prova decisamente positiva. Positiva non solo per la baldanza con cui affronta Riccardo, per lo squillo e la sicurezza in acuto, per la robustezza della voce e la solidità nella tenuta, quanto per l’attenzione rivolta al testo, al fraseggio, alla costruzione di un personaggio vero e proprio. In effetti sembra l’unico, tra i protagonisti, a porsi il problema di portare in scena una maschera perché anche Mansoo Kim, Renato, pare limitarsi solo a cantare, tutto sommato bene, il ruolo, senza mai corredare la parte di autentiche intenzioni. Discreti i comprimari – Marco Camastra (Silvano), John Paul Huckle (Samuel), Romano Dal Zovo (Tom), Giuliano Petouchoff (Un giudice), Giampiero De Paoli (Un servo) – e buona la prova del Coro del Teatro Carlo Felice istruito dal maestro Claudio Marino Moretti.

Sulla regia di Leo Nucci ripresa Salvo Piro c’è molto poco da dire, anche perché non succede nulla: si entra, si canta e si esce – cosa, tra l’altro, che fanno anche i figuranti sicché la collaboratrice domestica che entra ed esce, nel giro di venti secondi, all’inizio del terzo atto pare mettere in pratica la massima “Chi si fa i fatti suoi, campa cent'anni” –. Le scene di Carlo Centolavigna e i costumi di Artemio Cabassi offrono, almeno questo, un bel colpo d’occhio nel primo e terzo atto, mentre l’orrido campo non fa alcuna fatica a esser tale.

Applausi convinti, e in alcuni casi generosi, per tutti.