Cerchio compiuto, ciclo infinito

di Roberta Pedrotti

Approda finalmente di fronte al pubblico la produzione di Pelléas et Mélisande che nel 2020 era stata sospesa per la pandemia e trasmessa solo dalla Rai a porte chiuse.

PIACENZA, 5 febbraio 2023 - Chi ha visto lo spettacolo a Piacenza avrà avuto in mano il programma di sala. Probabilmente qualcuno lo avrà anche letto e avrà trovato un breve scritto a mia firma. Perché lo dico? Per ricordare la lunga storia di queste recite e di quel saggio sulla storia dell'opera che risale a prima della pandemia. Sì, perché Pelléas et Mélisande avrebbe dovuto essere una coproduzione emiliana nell'ambito di Parma capitale della cultura 2020 e andare in scena proprio nella primavera di quell'anno. Poi, sappiamo come è andata: si salvò solo una recita al Teatro Regio, a porte chiuse, trasmessa dalla Rai. Già allora, parve uno spettacolo bellissimo e, se dispiaceva non poterlo applaudire dal vivo, bisogna ammettere che in quel momento l'atmosfera spettrale, sospesa, esoterica si sposava assai bene con la situazione. Era un'atmosfera di eterni ritorni, di tempo che si riavvolge e sovrappone a sé stesso, di generazioni che si confondono: Arkel, Golaud, Pelléas, Yniold; Geneviève, Mélisande e la sua figlioletta neonata sembrano l'avvicendarsi delle diverse fasi della vita destinate a ripetersi e a specchiarsi, come fossero, forse, le stesse persone.

Alla fine, anche la storia travagliata di questa produzione sembra far parte di quel che si sente e che si vede sul palco. Il come ci siamo arrivati ci ricollega alla struttura ciclica della partitura, morte e nascita, misteriosa apparizione e dissolversi enigmatico. Così, tre anni fa aspettavamo. Ricordare la storia anche di quelle righe sulle diatribe Debussy/Maeterlinck, su Proust che ascolta l'opera al telefono o sul rapporto controverso con il dramma wagneriano significa per me ricordare la sospensione di quei giorni, l'attesa centellinata nella speranza di poter andare in scena, magari solo posticipando di due, tre, quattro settimane... che sono diventate trentacinque mesi. Mi si perdonerà, spero, la divagazione personale: sebbene non abbia a che fare con il concreto della produzione e del suo esito, è un tassello della storia dello spettacolo, perlomeno nella prospettiva di chi scrive.

Poi si arriva finalmente in sala, le luci si abbassano, il maestro sale sul podio e il pubblico è lì, saluta con un applauso e si pone in silenzio. Finalmente. Ci portiamo dentro la storia dell'attesa, dei posticipi, delle sospensioni, delle incertezze. Ora è il momento di lasciarci tutto alle spalle; è il momento di sapere non se ne era davvero valsa la pena (val sempre la pena di andare a teatro) ma se penseremo, diremo e scriveremo peste e corna o ci entusiasmeremo, se ci annoieremo o se avremo brividi e commozione. Pelléas et Mélisande non gode nemmeno della fama di opera più amata dal grande pubblico e si sprecano giochi di parole fra il nome del protagonista maschile e solidi geometrici utilizzati anche per giochi e sport, o aneddoti sulle platee che si svuotano dopo l'intervallo. Qui la cronaca dà invece ragione a Debussy, Maeterlinck e a tutti gli artefici dello spettacolo emiliano: la sala è ben popolata, non si registrano defezioni, qualche commento carpito qua e là nota una teatralità diversa dal solito, ma nel complessi si percepisce curiosità, attenzione, partecipazione.

In effetti, la produzione di Barbe&Doucet che in tv funzionava benissimo [leggi la recensione: Rai da Parma, Pelléas et Mélisande, 22/04/2021], in teatro funziona ancora meglio, ché le luci di Guy Simard (riprese da Andrea Ricci, mentre la regia è ripresa da Florence Bas) sono davvero bellissime, la macchina scenica ha una ricchezza e una semplicità incantevoli, la recitazione è curata, i movimenti coregrafici discreti e suggestivi. Soprattutto, non c'è dettaglio che sia lasciato a sé stesso; ogni elemento si connette a un altro creando una rete di simboli con perfetta corrispondenza musicale. Basti pensare a quelle radici profondissime, che sembrano richiamare all'inconscio, al non detto, al rimosso e sepolto e che si associano alle chiome infinite di Mélisande, non solo richiamo erotico.

E dal vivo si ammira ancor più la concertazione di Marco Angius, che cesella, sì, la delicatezza delle sfumature, ma lo fa scavando a fondo nella partitura, senza languori o manierismi. Senza prese di posizione che non siano un'analisi quasi chirurgica da cui emerge una teatralità autentica, perfino vibrante, una capacità di rendere denso e presente anche il colore più diafano, lo spessore più evanescente. E la Filarmonica Toscanini lo segue benissimo. Parimenti vanno lodati il coro del Regio di Parma preparato da Massimo Fiocchi Malaspina, le danzatrici della compagnia Artemis Danza, i tecnici, i macchinisti, attrezzisti e sarti del teatro Pavarotti Freni di Modena e del Municipale di Piacenza. Tutto fila liscio, sembra semplice, ma non lo è affatto, fra luci, ombre, piani sospesi, specchi d'acqua. E canto, perché la peculiare declamazione plasmata da Debussy, nel suo procedere per sottrazione e imprevisti squarci melodici e melismatici, è tutt'altro che semplice. Piace moltissimo il Pelléas di Phillip Addis, con quel colore baritonale venato d'avorio che ben si presta alla strana melanconia del personaggio e affronta con naturalezza l'ambigua tessitura senza perdere d'incisività nei passi più tenorili, anzi, mantenendo sempre vivo il fuoco di una musicalità al servizio del significato del testo. Il timbro cristallino di Karen Vourc'h, Mélisande, arriva a diventare un po' tagliente nella celebre “Mes longs cheveaux”, ma si addice assai anche per questo alla definizione del personaggio suggerita da Barbe&Doucet, una specie di spirito senza età, vecchia e infantile insieme. Dion Mazerolle dipinge ad arte un Golaud pacato, serio, ma quasi affabile e dunque viepiù perturbante nel montare dell'ossessione gelosa nella scena con Yniold (un'eccellente Silvia Frigato) o nell'esplosione violenta contro la moglie. Enkeleida Shkoza interpreta con grande sensibilità Geneviève e l'Arkel di Vincent Le Texier con la sua classe merita tutti i calorosi applausi (forse i più intensi) tributati dal pubblico piacentino. Né si può tacere dell'incisività attoriale di Roberto Lorenzi, che come medico e pastore ha solo poche frasi da cantare, ma al quale i registi chiedono una presenza scenica significativa come messaggero di morte.

Il ciclo si è compiuto, finalmente, ed è pronto a ricominciare con ogni tassello al suo posto.