Colore, rigore, splendore

di Irina Sorokina

Fa tappa anche a Modena il pasticcio vivaldiano Il Tamerlano, ovvero la morte di Bajazet con un ottimo cast, la regia di Stefano Monti e la direzione di Ottavio Dantone. 

Leggi anche la recensione da Piacenza: Il Tamerlano, 22/01/2023

Modena, 5 febbraio 2023 - Quel che colpisce l’occhio subito e l’abbaglia è il colore nero. Del nero parleranno in tanti senza accorgersi che, in realtà, non si tratta di nero, ma di una sua sfumatura particolare, il marengo. Saranno in tanti che diranno "è il nome del paesino in provincia di Alessandria celebre per una battaglia avvenuta il 14 giugno 1800"; gli amanti dell’opera esclameranno "è quella della Tosca!" E avranno ragione. Ma il nostro caso riguarda la nuova produzione dei teatri emiliani romagnoli che è già stata rappresentata a Ravenna, a Reggio Emilia e a Piacenza e recentemente è approdata al Teatro Comunale Pavarotti Freni di Modena; la vedranno anche gli amanti della lirica a Lucca. Il colore significativo dell’allestimento del Tamerlano, ovvero la morte di Bajazet di Antonio Vivaldi (RV 703) che dà molto piacere all’occhio è proprio il marengo, un nero biancastro, sbiadito, o semplicemente grigio scuro, a volte paragonato con l’asfalto bagnato: il tessuto di questo colore il prese nome di marengo dopo la celebre battaglia napoleonica che ebbe luogo nelle vicinanze del piccolo paese piemontese, luogo di produzione dei tessuti.

Si aspettava col fiato sospeso la nuova produzione del “pasticciovivaldiano sul soggetto molto gettonato nel Settecento centrato su due personaggi storici, Tamerlano e Bajazet, usato nella celebre opera di Georg Friedrich Händel (1719, prima esecuzione nel 1724). L’omonima opera del Prete rosso è ben diversa dal capolavoro monumentale del compositore tedesco, si tratta del “pasticcio”, una forma diffusa nel teatro lirico settecentesco che prevede l’uso dei brani dei compositori diversi, e Il Tamerlano, ovvero la morte di Bajazet vivaldiano andato in scena al Teatro Filarmonico di Verona nella stagione di carnevale del 1735, segue questa strada.

L’operazione monumentale di messa in scena è effettuata da Stefano Monti che firma regia, scene e costumi: l’idea registica non è freschissima, ma applicata al Tamerlano vivaldiano dimostra la propria efficacia. La scena sobria prevede l’uso di una piattaforma pesante che sale e scende, un palcoscenico dentro un altro palcoscenico calcato dai personaggi per eseguire i brani decisamente lunghi e complessi: un’idea semplice e ben funzionante che permette agli interpreti di esprimersi in pieno e – perché no? – soddisfare il loro naturale narcisismo.

Non solo la piattaforma monolitica gioca un grande ruolo nella produzione di quest’opera barocca: attorno a Stefano Monti di stringe una cerchia di collaboratori, ognuno col proprio compito, Cristina Ducci si occupa dei video 3D, Eva Bruno delle luci, Lamberto Azzariti delle illustrazioni, Vincenzo Balena delle sculture, Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti delle pitture su tela, Marisa Ragazzo e Omid Ighani delle coreografie: ne viene fuori uno spettacolo raffinato, ricchissimo e grandioso che, a nostro parere, pecca un po’ di esagerazione. E poi, ci sono i danzatori di DaCru Dance Company accompagnano ogni personaggio con i loro gesti espressivi e a tratti convulsi allo scopo di disegnare i movimenti dell’anima; l’azione scenica viene sicuramente ravvivata dalla loro presenza anche se a lungo termine risulta ripetitiva e quindi un po’ noiosa. Ci vorrebbe più il senso della misura per questo Tamerlano: tuttavia il grande valore dell’allestimento non si mette in discussione.

L’efficacia e il fascino della messa in scena di questo Tamerlano sono dovuti al pari al bravissimo cast di cui è impossibile dichiarare il primo o il migliore: tutti sono i primi e i migliori. Il ruolo del titolo è affidato al valoroso controtenore Filippo Mineccia di cui si ricorda una brillante partecipazione ai Carmina Burana all'Arena di Verona l’anno scorso, in possesso di una voce ben timbrata, da un bello squillo, ma soprattutto di una tecnica solida che garantisce l’alta qualità prestazione: per lui tante lodi e calorosi applausi alla fine. Bruno Taddia disegna la figura tragica di Bajazet in tutta l’infinità di sfumature psicologiche e appare quasi monumentale, ma non gli manca certo la sensibilità. Di tutto il superlativo cast, proprio lui riesce a scolpire la figura del sultano nel modo più umano e profondo. Il sopranista Federico Florio dona generosamente la sua bella voce al nobile personaggio di Andronico, in aperto e piacevole contrasto con due sovrani: la linea del canto è carezzevole e le fioriture sono vigorose. Molto impegnativa la parte di Irene, sposa rifiutata di Tamerlano, richiede una tecnica che potremmo definire “cosmica” e una resistenza fisica non indifferente: le qualità che Shakéd Bar possiede e le rivela con una grinta indiscutibile tutte le volte che appare in scena. L’esecuzione sicura dell’aria famosa “Sposa son disprezzata” viene premiata da un’autentica ovazione. Delphine Galou è una dolente Asteria dalla voce dolce e resistente e Arianna Vendittelli - Idaspe sfoggia uno strumento sano e ben timbrato e brilla nei virtuosismi.

Tutta questa bella gente trova in Ottavio Dantone un direttore bravissimo e un complice perfetto: guida i musicisti dell’Accademia Bizantina con mano ferma e dolce nello stesso tempo, è particolarmente attento alla parola cantata, ma “si scioglie” nelle arie magnifiche da una lunga durata in cui produce le sonorità seducenti, ma pur sempre precise e grintose.

Alla fine, un successo davvero grandioso, impressionante, eccezionale per i tempi che corrono: gli applausi a non finire del pubblico che sembra non intenda lasciare la sala; più degli applausi sono ovazioni.