Gloria che visse due volte

di Sergio Albertini

Il Lirico di Cagliari, fedele alla sua tradizione di riscoperte, riporta in scena Gloria di Cilea in una produzione nella quale si apprezza soprattutto la concertazione di Francesco Cilluffo, appassionato ed esperto di questo repertorio.

CAGLIARI, 10 febbraio 2023 - A differenza dei grandi compositori della generazione precedente, quelli appartenenti alla cosiddetta 'scuola verista' (ma anche alla scapigliatura, al naturalismo di impronta francese, ai post-pucciniani) sono rimasti in repertorio con una, al massimo due delle loro opere. Leoncavallo, Giordano, Mascagni, cui spesso viene associato anche il nome di Francesco Cilea. Nel 2017 La Fenice di Venezia ha recuperato dall'oblio la sua opera d'esordio, Gina. Ecco che il Lirico di Cagliari apre la propria stagione con Gloria.

Gloria nasce (e muore) due volte: la prima, dopo il grande successo della sua Adriana Lecouvreur, il 15 aprile 1907. Cilea scommette molto su Gloria, ha attinto alla 'moda' del momento, le 'fiorentinate', e al neogotico (saranno gli anni, ad esempio, della Cena delle beffe di Giordano, di Gianni Schicchi di Puccini, della Parisina e di Isabeau di Mascagni), ma, dopo aver desistito da una Francesca da Rimini da D'Annunzio, si rivolse a un dramma di Sardou, La Haine, affidando il libretto a Colautti (suo collaboratore per Adriana, e autore già di Paolo e Francesca per Mancinelli e di Fedora per Giordano). La storia in due righe: amore e morte di Gloria e Lionetto, due famiglie separate dal risentimento in una Siena medioevale. Colautti taglia, semplifica, riduce. Elimina la peste (i due innamorati, ritenuti contagiati, vengono da Sardou murati vivi). Gloria va in scena alla Scala nel 1907, protagonista Solomija Krušel'nyc'ka, direttore Toscanini. Direttore e soprano che, sempre alla Scala pochi mesi prima, avevano inaugurato la stagione con Salome di Strauss. Al povero Cilea, dinanzi a cotanto confronto, giunsero elogi e critiche in egual misura; Toscanini evidentemente non aveva amato l'opera e la collaborazione tra lui e Cilea era stata pessima. Il risultato? L'opera venne ritirata dopo la seconda recita.

Nel 1932, tuttavia, Cilea ripropone, con significativi cambiamenti e ritocchi, l'opera al San Carlo di Napoli, secondo un'idea di rinnovamento e di 'nuovo melodramma nazionale', mescolando al Verismo influenze wagneriane con l'individuazione di Leitmotiv. Con la collaborazione di Moschino, Cilea ritocca in più punti il testo, compatta diversi episodi (l'opera da quattro passa a tre atti), nel secondo atto viene eliminata la scena in cui si confrontano Lionetto e Bardo, cambia il nome ad alcuni personaggi, come l'Orvietana che diviene la Senese, il fratello di Gloria da Folco diviene Bardo. L'opera va in scena diretta da Franco Capuana con Giannina Arangi-Lombardi e Ulisse Lappas. Poche riprese (a Roma col duo Caniglia-Gigli, all'aperto in piazza del Baraccano a Bologna e al Castello Sforzesco di Milano), poi ricade immediatamente nell'oblio. Due riprese (Rai Roma 1969, direttore Ferdinando Previtali con Margherita Roberti e Flaviano Labò e nel 1997 a San Gimignano, all'aperto, con Fiorenza Cedolins e Alberto Cupido) fino questa ripresa cagliaritana, che prosegue le proprie inaugurazioni nel nome dell'opera italiana novecentesca (magari a discapito di Handel, Vivaldi, Berg, Janacek o Britten: pazienza!). È affidata alla bacchetta di Francesco Cilluffo che, in quanto direttore principale del Wexford Festival, di rarità se ne intende, ma anche del mondo di Cilea e dintorni (ha affrontato L'Arlesiana, Guglielmo Ratcliff, Isabeau, Risurrezione, L'Oracolo, Mala Vita...). Cilluffo e una smagliante Orchestra del Lirico hanno offerto una tavolozza ricchissima di colori e dinamiche, la sontuosità degli archi nell'aria "Fonte muta", la cupezza di certi temi (come quello della 'strage'), il clangore degli ottoni nel finale del primo atto.

Protagonista è una sempre più interessante Anastasia Bartoli, tuttavia ancora in progress; se le prime due ottave risultano ambrate, la terza a tratti diviene tagliente e la pronuncia mai bene articolata. In una parte che conserva un gusto e uno stile floreale, la sua articolazione risulta manierata, ma mai sensuale (si confronti con la registrazione della Fleming dell'aria "O mia cuna fiorita"). La parte di Lionetto appartiene alla tipologia del lirico spinto; l'uruguayao Carlo Ventre possiede una sicura declamazione muscolosa, uno squillo argenteo e baldanzoso, ma la scrittura di Cilea spesso è faticosa, alterna momenti di canto a fior di labbra, suoni smorzati con dolcezza e languore, e Ventre, oltre ad una stentorea esibizione, manca (anche scenicamente) il personaggio. Bardo è l'ottimo Franco Vassallo, che centra appieno la figura possessiva e violenta del fratello di Gloria; la parte di Bardo è l'unica che conservi ancora l'ombra di quel verismo 'da coltello' da cui Cilea tenta di separarsi: nell'aria "O mia dolce sorella" Vassallo ha trovato l'esatta morbidezza di un canto mai brado, che sa mantenere una sua decorosa eleganza. Risonante dei suoi gravi l'Aquilante de' Bardi del georgiano Ramaz Chikviladze, efficaci il Vescovo di Alessandro Abis e La Senese di Elena Schirru, periclitante Il Banditore di Alessandro Frabotta. Grande prova del Coro, preparato da Giovanni Andreoli, nei vari interventi, da "Da i verzier dei Momaldeschi" all'ottima resa del "Magnifica il Signor l'anima mia".

Nota assolutamente negativa per la regia: non basta, per il tentativo di rilancio di un'opera dimenticata, affidarla ad un attore, personaggio televisivo e regista popolare come Antonio Albanese, ma di scarsa esperienza operistica. Certe staticità drammaturgicamente inaccettabili come il quartetto del I atto, la fuga a passo di lumaca sull'ardua scalinata dei due amanti, il duetto del II atto affidato a gestualità di vecchia scuola sono da bocciare. Funziona meglio l'idea del non mondo e non tempo, in uno spazio che evoca il fantasy mescolato a un arcaico di vago richiamo sardo (il pozzo sacro, i costumi): le scene di Leila Fteita ricostruiscono un pietroso anfiteatro su cui immobile è disposto il coro (quasi un Oedipus Rex!), una fonte centrale, che diviene al II atto il 'ring' amoroso, per concludere con un oppressivo III atto racchiuso da un muro su cui spicca un originale tronco d'albero secco a richiamare il Crocifisso. Costumi arcaicizzanti di Carola Fenocchio, luci che disegnano azzurri di cielo e sangue rosso a firma di Andrea Ledda.

Ma forse Gloria è già tornata al suo sonno profondo.

Sergio Albertini