Fenice, riforma, tagli e design

di Francesco Lora

Sulla massima scena veneziana, Orfeo ed Euridice di Gluck se la vede con i preoccupanti argomenti e il solido mestiere del regista, Pier Luigi Pizzi, e del concertatore, Ottavio Dantone. Ottimo l’Orfeo di Cecilia Molinari e l’Amore di Silvia Frigato.

VENEZIA, 6 maggio 2023 – Di Orfeo ed Euridice di Christoph von Gluck e Ranieri de’ Calzabigi al Teatro La Fenice di Venezia, nuovo allestimento con cinque recite dal 28 aprile al 6 maggio scorsi, piace la cordiale accoglienza ma preoccupano gli argomenti d’accompagnamento; anche perché la locandina promette la versione originale di Vienna 1762 e la solita edizione critica pubblicata da Bärenreiter, ma più d’un aspetto non torna ai conti. Pier Luigi Pizzi, regista, scenografo e costumista, decano di erudizione e bellezza sul palcoscenico, intervistato nel programma di sala dichiara, con sconcertante contraddizione di sé stesso e una tesi insussistente dal punto di vista musicologico, che «alla riforma [gluckiana] corrisponde anche un nuovo tipo di rappresentazione. La forma coreutica, affidata a un coreografo del calibro di Gasparo Angiolini, ha modificato l’immagine del teatro in musica: il senso barocco del balletto, che si ritrovava per esempio nella tragédie lirique [sic] di Rameau, viene superato. Questo ci ha convinti a ridimensionare i balli, sopprimendo alcuni ritornelli, e a considerarli come semplici momenti strumentali eseguiti sulla scena da parte di un piccolo complesso di giovani musicisti. […] Non mi sento di rimpiangere la prestazione di volonterosi atletici ballerini impegnati in un’improbabile, inutile, noiosa esibizione ginnica». Cosa corrisponde, ai fatti? Il taglio netto non di «ritornelli» bensì di cinque danze intere, quella dopo il coro «Vieni a’ regni del riposo» e quattro nel finale, più la devoluzione – assurda per concetto e per sonorità – di alcuni accompagnamenti dall’orchestra a un quintetto d’archi e tiorba. Pizzi si esprime al plurale poiché a dargli manforte c’è Ottavio Dantone, il concertatore, che sul mercato musicale ha fama di specialista del repertorio sei-settecentesco – dunque anche pretese filologiche – ma che in verità macchia un tantino troppo spesso le proprie esecuzioni con arbitrii testuali incondivisibili: estese mutilazioni e riscritture, corrompendo il testo e la forma. A sua volta, egli dichiara – in modo erroneo – che i balli «non avevano necessariamente un rapporto diretto con lo svolgersi dell’azione, quanto più riflettevano un gusto tipico della corte di Versailles che in quel periodo aveva notevole influsso politico a Vienna»; tali «gusto tipico» e «influsso politico», però, risultano essere fanta-musicologia l’uno e fanta-storia l’altro, mentre, se c’è un lavoro ove i balli – intoccabili – hanno un rapporto diretto con l’azione, quello è appunto Orfeo ed Euridice di Gluck. A Pizzi e a Dantone basterebbe avere la prudenza di non esplicitare scelte che passano, secondo i casi, per azzardate, fuorvianti, neghittose o arroganti, ovvero basterebbe fidarsi del lavoro di Calzabigi e Gluck; si fidino, appunto: anche questi ultimi sapevano fare benino teatro e musica, e la prefazione della loro Alceste è tuttora un testo sacro; non fa invece una gran bella figura colui il quale, incaricato di allestire una sola ora e mezza scarsa di azione teatrale, s’ingegni di amputarne altri dieci, garbati minuti. Tolte le chiacchiere, del recensore non meno che degli intervistati, resta da guardare un allestimento in bianco e nero, geometrico, di design fino, con un uso dei video fattosi scaltro nel passare del tempo, con dunque il rosseggiare di vampe di fuoco digitali e con una gratuita proiezione della facciata della Fenice. Nel contempo, resta da ascoltare una lettura musicale asciutta e mordente, cui il coro del teatro veneziano offre velluto da opera romantica, tutt’altro che sgradito, e cui la corrispondente orchestra dà nerbo, anche tramite i benvenuti squilli ed echeggi di trombe e corni naturali; ma che fine hanno fatto i timbri del cornetto e dello chalumeau, prescritti in partitura e però mai pervenuti in fondo alla platea? Quanto al canto e ai cantanti, si sa che Orfeo ed Euridice è soprattutto il tour de force del protagonista maschile, invero l’unico protagonista: se ci si limita ai confronti possibili negli ultimi anni, il mezzosoprano Cecilia Molinari non ha la palpitante comunicativa di Daniela Barcellona, né la sovrana forbitezza di Natalie Stutzmann, né la controtenorile incisività di Carlo Vistoli, ma va lodata per omogeneità timbrica e idiomaticità estensiva, perfezione linguistica e naturalezza espositiva. Accanto a lei, nell’ultimo terzo della partitura, Mary Bevan, come Euridice, in sé corretta, soffre appunto del non essere artisticamente italiana, e dunque del procedere con un certo anonimato di colori, dell’incappare in qualche asprezza di registro e del trovare nella parola più insidie che stimoli. L’esatto contrario, col quale ci si riallinea allo stile della Molinari, si ha nell’altro soprano, Silvia Frigato, predestinata per mezzi e per attitudine a un Amore il più fanciullesco, spensierato, malizioso, ironico; insomma, quello giusto.