Il ritorno di Mefistofele

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma apre la stagione 2023/2024 con il Mefistofele di Arrigo Boito. Sul podio siede il direttore stabile, Michele Mariotti, che convince in un’eccellente lettura della partitura. Nel cast John Relyea (Mefistofele), Joshua Guerrero (Faust) e Maria Agresta (Margherita/Elena). La regia, a firma di Simon Stone, non convince altrettanto, apparendo anzi come un’occasione mancata.

ROMA, 2 dicembre 2023 – Lunga e gloriosa è la tradizione rappresentativa del Mefistofele di Arrigo Boito al Costanzi, opera scelta per inaugurare la nuova stagione 2023/2024. Titolo attraente, ma certo di non facile mise en scène, il Mefistofele è opera di somma caratura letteraria, di buona fattura musicale (specialmente in alcuni passaggi), ma di drammaturgia a tratti farraginosa, caratteristiche che la rendono non facile da mettere in scena. Infatti, il vulnus di questa produzione romana è proprio l’allestimento registico, a firma di Simon Stone, un’occasione mancata sotto molti punti di vista, che rischia di offuscare un’eccellente direzione musicale, quella di Michele Mariotti, e una performance ragguardevole tanto di orchestra e coro, come pure di alcune voci del cast.

La direzione è affidata a Michele Mariotti, che rende limpida la fruizione di una partitura potente, graffiante, imprevedibile, ma soprattutto manichea. Il tutto si rende già evidente dallo scultoreo preludio, dagli echi palesemente wagneriani, dove il bene ed il male sembrano lottare a suon di apocalittici squilli di tromba sùbito mitigati da delicatissimi impasti orchestrali. Mariotti sente perfettamente tempi, stacchi; fa, insomma, respirare la partitura, riuscendo ad innalzare il volume orchestrale al massimo, soprattutto nelle scene corali (il Prologo in cielo, la Notte del Sabba ed il finale, con l’apoteosi di Faust). L’orchestra segue il direttore con perizia. Il cast vocale è abbastanza buono. Su tutti si stagliano il Mefistofele di John Relyea e la Margherita/Elena di Maria Agresta. Il primo, dotato di una voce pastosa, intensamente scura, malleabile ed uniforme, è perfetto nel ruolo di Satana: esempio ne è il potente arioso del II atto, «Ecco il mondo», nel quale Relyea svetta ad acuti potenti e penetranti, come pure il monologo «Son lo Spirito» (I), che esalta al massimo la corda del basso. Essenziale nel ruolo di Mefistofele è, inoltre, il fraseggio, che deve essere particolarmente curato in un’opera così letteraria; Relyea incide con chiarezza le frasi di Boito, facendo anche risaltare il lato comico/grottesco del personaggio. Maria Agresta, che vanta una voce vibrata, calda, eccelle sia nel ruolo di Margherita, che in quello di Elena. La Agresta, affermatasi stabilmente fra i migliori soprani italiani, dona tutta sé stessa nella famosa aria «L’altra notte in fondo al mare», riuscendo a cullare la melodia, lugubremente, per poi svettare in acuti penetranti come pugnali. Delicato, a fior di labbra, il duetto con Faust («Lontano, lontano, lontano», II: Ponchielli se ne ricorderà per quello, analogo, fra Laura ed Enzo Grimaldo nella Gioconda, peraltro su libretto dello stesso Boito), come pure il successivo terzetto, cui si aggiunge Mefistofele. In generale, la Agresta raggiunge l’acme proprio nell’intero atto ‘di Margherita’ (III), dove si abbandona anche ad una recitazione intensa. Nel ruolo di Elena, del pari, si lascia apprezzare per la dolcezza della resa melodica. Il Faust di Joshua Guerrero è buono, anche se vocalmente non straordinario: si tratta di una voce probabilmente un po’ leggera per una parte come quella di Faust, soprattutto nel registro acuto. Ciò premesso, Guerrero interpreta un personaggio convincente a livello recitativo e si lascia apprezzare, musicalmente, nel III atto, come pure nel maestoso finale, in passaggi che richiedono un notevole controllo vocale e salgono repentinamente all’acuto. Fra i comprimari si distingue soprattutto il Wagner di Marco Miglietta, per ricca linea vocale; gli altri sono: Sofia Koberidze (Marta/Pantalis) e Yoosang Yoon (Nereo).

Il problema di questa produzione risiede, dunque, essenzialmente nella regia di Simon Stone, che risulta essere un’occasione mancata, nel vero senso della parola. A dispetto delle incensate parole che Leonetta Bentivoglio tributa a Stone nella consueta intervista al regista presente nel programma di sala, Stone non dimostra certo di essere «il regista più innovativo e proiettato nel futuro del paesaggio operistico odierno»; a parte il fatto che, oggi come oggi, forse l’innovazione è divenuta un gioco di rifrazione di specchi, con il risultato che sarebbe più originale presentare sul palco un’opera in perfetto stile tradizionale (e non lo dico certo da laudator temporis acti), va ammesso, con franca sincerità, che Stone non fa nulla di diverso da quello che, meglio di lui, produce Michieletto. Ma trovo il discorso sull’originalità una mera chimera romantica; mi interessa maggiormente quello sulla funzionalità. Ecco, la regia di Stone non è funzionale, ma pretestuosa e farraginosa – questo, almeno, nella prima parte. Il culmine della farraginosità si raggiunge nella prima parte del II atto, quando Faust incontra e seduce Margherita: Stone spezza tutto l’atto fra due fastidiosi intervalli pur di mettere sul palco un’enorme piscina piena di palline colorate, che viene sfruttata male e per poco tempo. Ma si proceda con ordine. Il prologo in cielo viene applaudito per la sola ottima performance del coro, che si trova staticamente incollato nelle sue posizioni, variamente collocato sulla parete fondale ed ai lati. Si potrà obiettare dicendo ‘beh, Stone vuole suggerire l’immobilità della perfezione celeste’; bene: come la mettiamo, allora, con la notte del sabba (II atto), dove il coro demoniaco è del pari schierato su gradinate, immobile: anche all’Inferno stanno tutti fermi? Insomma, Stone ha ben poca sensibilità per le masse corali e l’espediente della festa per la Pasqua (I atto), con il consueto stuolo di giocolieri, clown (di cui uno è Mefistofele) caroselli e zucchero filato, è oramai un topos di molte produzioni. Quindi, la serata, giunta a metà circa della durata dell’opera, sembrerebbe ormai designata ad un netto fiasco della regia. Invece, Stone si riprende nell’atto della morte di Margherita, dove introduce il tema della follia e del manicomio: Margherita si trova, infatti, folle e disorientata in una cella di detenzione. Tale tema viene sviluppato proprio nell’ultima parte, l’epilogo, dov’è Faust a trovarsi, vecchio e solo, in una casa di riposo. Ebbene, se Stone fosse stato un regista sensibile, avrebbe introdotto il tema della follia fin dal primo quadro, suggerendo al pubblico, magari, che l’intera vicenda fosse una proiezione della mente di Faust, paziente psichiatrico obnubilato dalla follia. Non vorrei rubare, ovviamente, il mestiere a Stone, quanto solo suggerire uno dei possibili modi per rendere più interessante questa mediocre regia. Come che sia, il quadro visivamente più bello è certamente il sabba classico, dove la scenografa Mel Page fa un eccellente lavoro presentando una fantasia architettonica di marmoree colonne corinzie legate da larghe arcate. Certo, però, un bel tableau non può salvare una regia intera, che può essere solo definita un’occasione mancata.