In limine mortis

di Luigi Raso

A fronte di una resa musicale convincente, nell'apertura di stagione del Massimo partenopeo con Turandot, desta legittime discussioni una visione registica estrema che, accumulando idee, piani narrativi e citazioni, finisce per perdere coerenza e chiarezza.

NAPOLI, 12 dicembre 2023 - Una Turandot..in limine. Questa locuzione latina potrebbe sintetizzare lo spettacolo che ha inaugurato la stagione lirica e di balletto 2023 - 2024 del Teatro San Carlo: si celebrano due centenari, quello della morte di Puccini - che cadrà il 29 novembre 2024 - e quello della nascita di Maria Callas - lo scorso 2 dicembre -, che fu applaudita la prima volta al San Carlo nel febbraio del 1949 nelle vesti della algida principessa cinese.

In questa nuova produzione del Teatro di San Carlo, l’estremo capolavoro di Puccini è reinventato e collocato sul precario equilibrio tra sogno e realtà, vita e morte, fiaba - molto dark - e allucinazione, presente e passato: lo scivolamento da un opposto all’altro, tra quelli citati, individua la cifra caratteristica dello spettacolo, appesantito da tante (troppe) trovate, da un gioco di rimandi ad atmosfere e periodi storici tra loro distanti ed eterogenei. Questo caleidoscopio di idee, di visioni mostruose che sembrano essere uscite dal pennello di un Hieronymus Bosch nostro contemporaneo, è inserito nel plot drammaturgico reinventato dal regista, il vulcanico Vasily Barkhatov, al suo debutto in Italia.

Com’è noto, Turandot è l’opera incompleta (più che incompiuta) di Giacomo Puccini: il compositore lucchese - non soltanto a causa dei primi sintomi della grave malattia che lo condusse alla morte - non riuscì a dare una forma definitiva al finale della fiaba Turandot: già sul finire del 1923 (dunque quasi a un anno dalla morte) la sua inventiva si era arenata proprio sulla composizione dell'ultima scena. Come tradurre in musica il disgelo da parte di Turandot? Quale eco la tragica morte di Liù – una delle più "pucciniane" tra le sue eroine, una delle tante donne che nel teatro (e nella psicologia, soprattutto) di Puccini pagano con la vita la “colpa” di aver amato avrebbe riverberato sul trionfo dell’amore tra Calaf e Turandot? Questi sono e restano interrogativi senza soluzione: l'unico enigma irrisolto di Turandot. I finali di Franco Alfano (eseguito in questa produzione, la versione "Alfano-Toscanini", sforbiciata di un centinaio di battute rispetto a quella originaria concepita da Alfano) e Luciano Berio ci forniscono una risposta parziale e non definitiva. Restando ai fatti, Puccini non è riuscito/non ha voluto completare il finale di Turandot.

Ebbene, proprio l’assenza di una soluzione definitiva per Turandot di Puccini deve aver indotto il regista Vasily Barkhatov a riscriverne la drammaturgia, immaginando e portando in scena, nella scomposizione e frammentazione dell’azione teatrale tra realtà e allucinazione, un happy end di forme e sapore cinematografico: Calaf e Turandot, nell’intimità di un’automobile, si scambieranno finalmente un bacio appassionato. Il bacio, appunto: il punto cruciale di Turandot, quello che aveva determinato l'impasse creativa di Puccini, viene superato, senza troppe implicazioni psicologiche, dalla riscrittura drammaturgica del regista russo. È un bacio rapito in scena e scambiato appassionamente in un’automobile: da questo mezzo origina il racconto immaginato da Barkhatov, e tutto in esso confluisce. Lo spettacolo, infatti, si apre con un antefatto: dopo il funerale di Timur (ambientato nella magnifica Basilica di San Lorenzo Maggiore in Napoli), vediamo e ascoltiamo Calaf e Turandot discutere, con marcato accento dialettale dei doppiatori, in auto. I due si scambiano recriminazioni, incomprensioni, accuse, insomma tutto il bric-à-brac di una coppia in crisi. Nel bel mezzo di questa discussione da soap-opera, avviene un improvviso scontro frontale con un’altra auto: Calaf resta gravemente ferito nell’incidente; soccorso, viene trasportato nella camera dove viene operato. Da questo momento lo spettacolo vira verso la dimensione onirica. Ciò che si vede è una proiezione del deliquio comatoso di Calaf. Il confine tra il presente/reale (l’intervento volto a salvare la vita a Calaf all’interno della sala operatoria, che fastidiosamente incombe sulla scena) e ciò che viene rappresentato (le immagini delle allucinazioni di Calaf in limine mortis) si fa sempre più labile.

L’impianto scenico di Zinovy Margolin - l’interno dell’Abbazia di San Galgano - diventa il centro e il vortice di una ridda di personaggi: i costumi firmati da Galya Solodovnikova vestono Ping, Pang e Pong come psicopompi, frati con la falce (chiarissimo il riferimento), altre figure che ricordano i mamuthones sardi, mostri che sembrano uscire dalle Pitture nere di Francisco Goya, il tutto in una commistione di stili ed epoche eterogenee. L’Imperatore Altoum evoca, adagiato in una teca e sotto gli occhi vigili di due pupazzi, gli scheletri di Waldsessen, in Baviera. A rimarcare l’atmosfera dark gothic e il labile confine tra sogno/incubo e veglia da cui origina la fiaba di Turandot vi sono le luci di Alexander Sivaev, le quali, prediligendo tinte cupe e sinistre, governano le proiezioni di immagini sulle campate dell’Abbazia.

In scena dunque un’orgia di citazioni letterarie (Dante per l'atto I, Ovidio per il II) e cinematografiche, di rimandi, richiami simbolici, e banalità (le risposte ai tre enigmi impresse in tubi fluorescenti da bar anni ’70/80, l’armatura che cinge Turandot come a rimarcare la sua impenetrabilità, Ping, Pang e Pong che diventano chirurghi, il finale cinematografico durante il quale Calaf e Turandot, seduti sul palcoscenico, guardano l'happy end del loro film d'amore, ecc.), che finiscono per appesantire e far smarrire il filo narrativo della nuova drammaturgia, la quale, optando per una dimensione prevalentemente onirica, pur non manca di spunti suggestivi.

Il palcoscenico, sul quale pendono ora l’auto incidentata, ora la sala operatoria, entrambe in continuo e molesto saliscendi, è attraversato da varie piroghe, da due barche, che evocano il traghettamento della narrazione tra i vari piani narrativi, tra quello del reale e quello del sogno, e viceversa, tra la vita e la morte, tra veglia e allucinazione. Ma pur con queste premesse, l’apparizione di Turandot, una delle più potenti presentazioni musicali di Puccini, viene teatralmente svilita: la Principessa irrompe nella sala operatoria (quindi nel mondo reale e presente) nel bel mezzo dell’operazione salvavita a Calaf. In apertura del secondo atto viene proiettato di nuovo, con pochissime variazioni, il video dell’incidente: ma stavolta Calaf si salva e Turandot finisce in coma e in sala operatoria. I deliqui che danno forma alla narrazione ora sono quelli della Principessa. “Turandot non esiste” ricorda la videoproiezione sul vetro esterno della sala operatoria: proprio la "negazione ontologica" di Turandot per il regista diviene il presupposto per raccontare una fiaba nera, in bilico tra realtà e immaginazione, che dalla morte va verso la vita e l’amore.

Ci sono tante (troppe) idee nello spettacolo firmato da Vasily Barkhatov: la sua narrazione, a causa del continuo sfalsamento dei piani cronologici e narrativi dell’intreccio, talora non appare coerente con la premessa di fondo, quella di mettere in scena, con due distinti punti di osservazione, una fiaba scaturita da allucinazioni. La duplicazione dei piani narrativi ne è il risultato, senza che si percepisca una profonda distinzione psicologica tra quello di Calaf e quello di Turandot.

L’originalità - malgrado, restando nell’ambito del teatro in musica, si scorga uno sfumato déjà vu della Bohéme firmata da Claus Guth a Parigi - della proposta registica resta in definitiva confinata alla rappresentazione di Turandot quale fiaba frutto dei deliqui comatosi dei due protagonisti, al ripudio di ogni riferimento riconducibile alla Cina e a un’impostazione drammaturgica fondata sulla duplicità dei piani di lettura, oltre che su una congerie di citazioni cinematografiche, rimandi scenici, iconografici e gestuali a volte privi di immediata interconnessione. Ma da simili premesse e ambizioni registiche ci saremmo aspettati un'attenta analisi della psicologia dei protagonisti dell’opera e, in particolare, di Liù (personaggio chiave di Turandot, soltanto sbozzato da questo disegno registico, a testimonianza della scarsa importanza che si attribuisce alla figura della piccola schiava è la sua prosaica uscita di scena), non limitata alla rappresentazione di una coppia in crisi e del cinematografico e banalissimo happy end conclusivo.

Una precisazione: chi scrive apprezza le regie che sollecitano la riflessione e ad interrogarci sul nostro presente. La vitalità del teatro, in musica e non, è stimolare domande piuttosto che fornire riposte. Ma la riscrittura drammaturgica di Vasily Barkhatov, pur partendo da un’idea di fondo suggestiva - Turandot come fiaba evanescente e onirica, in limine, frutto dell’immaginazione dei due protagonisti -, a causa dell’eccesso di rimandi, sfalsamenti narrativi e citazioni, sembra perdere il filo del discorso, inciampando in scene/trovate/costumi che possono comprensibilmente destare ilarità.

Decisamente più lineare, definito e molto convincente il versante musicale della produzione, che vede in Dan Ettinger un concertatore preciso, teso ad evidenziare i nessi e i riverberi tra la partitura di Turandot e la koinè musicale del ‘900, in particolare con Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij. Quella di Ettinger è, infatti, una direzione “barbarica” (nell’accezione musicale dell’aggettivo), che immerge Turandot nella temperie della civiltà musicale del Novecento europeo, improntata a una narrazione serrata ed energica, consumata da bruciante drammaticità, con un'agogica appropriata al fluire teatrale. Ma in questa vigorosa e turgida visione, non mancano i momenti per abbandonarsi a bozzetti orchestrali (l’apparizione della luna, la trenodia per Liù, tra i vari) di distillato lirismo, a nuances ben realizzate grazie al lavorio di cesello che l’eccellente forma dell’Orchestra del San Carlo consente a Dan Ettinger; tuttavia, si avverte qualche affondo tellurico, che a volte rischia di incrinare l'equilibrio tra orchestra, coro e cantanti.

Dopo il lavoro di concertazione lodato in occasione della recente Madama Butterfly (qui la recensione), Dan Ettinger perviene dunque a una lettura teatrale, molto ben adagiata sulla drammaturgia musicale della storia d’amore messa in musica da Puccini, che scava mella partitura alla ricerca di sonorità inquietanti (le percussioni nella scena degli enigmi, ad esempio). Il Novecento musicale, con le sue armonie ardite, le dissonanze, la ritmica a tratti esasperata, la raffinatezza della strumentazione e dei timbri delle evanescenti atmosfere, di cui la partitura di Turandot è dotta testimonianza, trova nella concertazione di Dan Ettinger una riuscita sintesi con l’intensità del melos pucciniano. Sugli scudi il Coro, diretto per l’occasione da Piero Monti, che pur avrebbe necessitato di elementi aggiuntivi: troppo esiguo, per Turandot, l'organico coinvolto. Malgrado ciò, si ascoltano ora sonorità granitiche, tendenzialmente compatte e poderose, ora melliflue e soffuse, in linea con le prescrizioni di Puccini e la concezione di Ettinger. Fa bene anche il Coro di Voci Bianche diretto da Stefania Rinaldi, molto suggestivo in "Là, sui monti dell'est",gemmadi esotismo orientale, raffinata trascrizione di Giacomo Puccini stesso di una tradizionale melodia cinese (“Canzone del gelsomino”).

Il pregio di questa produzione è quello di schierare, per i tre ruoli protagonisti, tra i migliori interpreti in circolazione per le parti di Turandot, Calaf e Liù.

La principessa di Sondra Radvanovsky stupisce per il notevole e poderoso tonnellaggio vocale, per la proiezione e gli acuti fendenti. Si notano delle asprezze timbriche nel registro acuto e una dizione italiana poco chiara e scolpita, osservazioni che comunque non intaccano una prestazione vocalmente superlativa. L’artista, pur nella umanizzazione del personaggio imposta dalla regia, delinea una donna che conserva momenti di sprezzante alterigia. Grazie alla raffinata tecnica di emissione, Radvanovsky riesce a piegare alla proprie intenzioni espressive uno strumento possente, come, tra i vari esempi, nei confronti con il padre Altoum e con Liù “Chi pose tanta forza nel tuo cuore?”. “In questa reggia” e “Straniero, ascolta!”, all’opposto, sono delle vere e proprie cannonate, un flusso di argento brunito proveniente da una vocalità, per volume, al di fuori dell’ordinario. Il Calaf di Yusif Eyvazov, malgrado l’annuncio in apertura di un’improvvisa indisposizione, brilla e si staglia per buona potenza, incisività e precisione della dizione, ottima proiezione, qualità che ci inducono a non impantanarci sulla vexata quaestio dell'obiettivo scarso appeal del timbro. Eyvazov riesce a dominare la ardua e acuta tessitura con naturalezza; fraseggia e alleggerisce l’emissione disegnando un Principe Ignoto convincente tanto vocalmente quanto scenicamente. La Liù di Rosa Feola, grazie all’ottima tecnica di emissione, sfoggia un fraseggio cesellato con finezza che le consente di rendere Liù una donna sinceramente innamorata e dolente. Intensi, proiettati e benissimo appoggiati sul fiato sono i pianissimi, poi rafforzati da una messa di voce ben calibrata e controllata.

Nicola Martinucci conferisce come personale dono sacrificale all’Imperatore Altoum, mortificato e ridicolizzato da questa visione registica, il ricordo di una voce squillante e possente, e la fama di indimenticabile specialista della parte di Calaf. Classe 1941, Martinucci, pur con l'inevitabile precarietà vocale, riesce a delineare un Imperatore stanco e provato: la sua prestazione, in chi scrive, provoca moti di commozione, tenerezza, e tanta malinconia per il ricordo vivido dell'ultima interpretazione del suo ancor valido e squillante Principe Ignoto al San Carlo (correva l’anno 2002).

Il Timur di Alexander Tsymbalyuk ha voce robusta, ma emissione ruvida e ingolata. In buona simbiosi vocale il trio composto da Ping, Pang e Pong, rispettivamente Roberto de Candia, Gregory Bonfatti e Francesco Pittari, ottimi interpreti di una delle pagine più interessante e geniale dell’opera in apertura dell’atto II. Tra le parti secondarie, molto bene il Mandarino del solido e sempre convincente Sergio Vitale; dal coro provengono la prima e la seconda ancella, rispettivamente Valeria Attianese e Linda Airoldi, e il Principino di Persia, quasi del tutto offuscato dalla regia, di Massimo Sirigu.

Al termine della rappresentazione, la seconda replica di questa produzione, la sala gremita del San Carlo tributa applausi prolungatissimi e, soprattutto, convinti e calorosissimi per il direttore Dan Ettinger, il maestro del coro Piero Monti e tutti gli interpreti, con punte di ovazione per Sondra Radvanovsky, Rosa Feola e Yusif Eyvazov.

Il dovere di cronoca impone di registrare dei buu e degli improperi scagliati da una piccola parte del pubblico all'indirizzo del regista ("È una vergogna!", "È uno schifo!", "Ho pagato il biglietto per vedere questo schifo di spettacolo") che si sono distintamente ascoltati al termine del primo atto dell'opera. Comunque la si pensi su questa tipologia di regie, le discussioni animati, gli screzi e gli sfoghi in teatro e sui social (ma per questo secondo "luogo" il discorso sarebbe ben più complesso, coinvolgendo anche aspetti extramusicali) dimostrano, qualora ce ne fosse bisogno, che l'opera gode di ottima salute.

Infine, una nota di colore a mo' di moscone giornalistico napoletano: dal palco reale ha assistito alla rappresentazione Anna Netrebko.