Il gusto del neoclassicismo

di Stefano Ceccarelli

All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia debutta il maestro Antonello Manacorda, che conduce il pubblico in un programma ben calibrato: da Richard Strauss, con la Suite delle musiche di scena da Der Bürger als Edelmann (op. 60), passa per Luciano Berio, Sonata per clarinetto op. 120 n. 1 (orchestrazione dall’originale di Johannes Brahms) – solista il talentuoso Alessandro Carbonare – e termina con la Sinfonia n. 6 in do maggiore D 589 “Die Kleine” di Franz Schubert.

ROMA, 29 aprile 2023 – Il debutto del maestro Antonello Manacorda alla testa dell’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è certamente un successo, mercé, innanzitutto, l’eccellente esecuzione di tutte le maestranze. Non va, però, messo in secondo piano lo studiato programma, insolito, con accostamenti che, sulla carta, suonerebbero azzardati, ma che hanno ben suonato assieme (mi si perdoni il calembour).

Il primo tempo si apre, infatti, con la suite orchestrale tratta dalle musiche di scena de Der Bürger als Edelmann, cioè Il borghese gentiluomo di Molière, composta da Richard Strauss. Si tratta di un esperimento ironico e riuscitissimo, frutto maturo del sopraffino gusto neoclassico di Strauss; l’orchestra, infatti, è ridotta all’essenziale e la partitura è tutta scritta in uno stile che ammicca alla musica sei-settecentesca, impastandola sapientemente di sonorità allotrie, novecentesche (come il pianoforte o le studiate dissonanze), che ne avvicinano l’esito all’estetica di Stravinskij. Manacorda mostra fin dall’inizio le sue doti: senso del ritmo, brillantezza, eccellente gestione dell’agogica. In una parola, Manacorda fa vivere la partitura in ogni suo particolare. Si pensi alla dolcezza melodica di Jourdaine, alla grazia del Minuetto, come pure alla tronfia scrittura del Maestro di scherma, che evoca l’inabilità del protagonista, appunto Jourdaine, nell’uso delle armi. Vividissimo anche l’Entrata a ballo dei sarti, in cui Andrea Obiso si distingue per maestria e grazia nei passaggi d’assolo del violino. Vero coup de théâtre è il finale, la Tafelmusik, quando i piatti portati in tavola vengono caratterizzati da variazioni su temi di celebri compositori (Wagner, Verdi, lo stesso Strauss del Don Quixote): Manacorda si destreggia in una scrittura sofisticata, quasi ardita a tratti, un cristallo che va porto con precisione e carattere. Dopo gli applausi, il programma prosegue con Luciano Berio e la sua orchestrazione della brahmsiana Sonata per clarinetto op. 120 n. 1. Ciò che lega Strauss a Berio, in questo programma, e che li rende perfetti l’uno vicino all’altro è proprio la volontà di ripresa e riscrittura della musica del passato; anche Berio, infatti, orchestra una sonata per clarinetto e pianoforte di Brahms, di cui permane perfettamente tersa la musicalità malinconica, resa in effetti di modernità non certo straniante. Solista della serata è Alessandro Carbonare, celebre primo clarinetto dell’Accademia e concertista affermato. L’esecuzione della parte è a dir poco perfetta: Carbonare è dotato di musicalità, fraseggio, sensibilità cromatica, attenzione alle dinamiche. Tutto ciò appare evidente nell’Allegro appassionato, dove solista e orchestra sono impegnati in una scrittura espressiva, tutta giocata su una tavolozza chiaroscurale di colori, sulle dinamiche dei vari strumenti, ad incorniciare una melodia pastosa, lievemente malinconica, quintessenza di Brahms. Nell’Andante un poco adagio Manacorda crea un velo orchestrale su cui Carbonare può intonare, soffusa, una melopea notturna, commovente. Più spedito l’Allegretto grazioso, dalle sonorità pastorali, che richiede all’interprete maggior energia ed uso di dinamiche più ardite. La sonata si chiude nel brio del Vivace, dove il virtuosismo si fa spedito, coreutico. Il pubblico riempie la sala di applausi e Carbonare regala un bis indimenticabile, talmente bello e ben eseguito da mozzare il fiato: un pezzo in stile armeno, di quelli eseguiti con il duduk, dove l’interprete si lancia in variazioni ardite su un velo degli archi, testimonianza della sensibilità eclettica del clarinettista, capace di eccellere in generi differenti. Un vero, inaspettato gioiello.

Il concerto si chiude con una splendida versione della Sesta di Schubert. Manacorda, schubertiano affermato a livello internazionale, dona una lettura brillante, mai piatta, sempre ravvivata da un sapiente gioco delle dinamiche, in continuo movimento per creare variazioni. Esempio perfetto ne è il tema portante dell’Allegro, sapientemente giocato nelle sue dinamiche di pieno/vuoto; l’arte di Manacorda sta, però, anche nella perizia della conduzione dello sviluppo, dove dipana i temi e le idee schubertiane. Il direttore si distingue ancora nel coreutico Andante, aggraziato. Mano sicura, agogica brillante: queste sono le caratteristiche dello Scherzo, che si muove rapido, guizzante, interrotto solo dall’agreste Trio. Il finale Allegro moderato, che inizia con un’idea accattivante, haydniana nel gusto, cimenta Manacorda in uno sviluppo rutilante, fino alla chiusa, dopo la quale il pubblico ringrazia con sonori (e meritati) applausi.