Mahler, Scala, mille e cento

di Francesco Lora

Riccardo Chailly, l’orchestra, il coro e le voci bianche della Scala, più otto voci soliste di pregio e il coro della Fenice, riportano nel massimo teatro d’opera italiano un’Ottava di Mahler da tutto esaurito.

MILANO, 20 maggio 2023 – Non è usuale avere familiarità esecutiva con la Sinfonia n. 8 di Mahler, quella soprannominata, in modo iperbolico ma eloquente, ‘Sinfonia dei Mille’, per via della sua concezione colossale e del suo organico sterminato: è cantata dall’inizio alla fine, intonando l’inno liturgico Veni creator Spiritus e il finale del Faust di Goethe, e non impone necessariamente il concorso di mille esecutori, ma – questo sì – qualche generoso multiplo di cento. Costa uno sforzo produttivo immane, molte e notevoli istituzioni di spettacolo non hanno nemmeno mai tentato di programmarla e al Teatro alla Scala era stata eseguita in due sole letture e oltre mezzo secolo fa: nel 1962, diretta da Hermann Scherchen, e nel 1970, diretta se Seiji Ozawa. Non era però mancata in assoluto da Milano, poiché nel 2013 era stata proposta dall’intera macchina della Verdi – orchestra sinfonica, coro e voci bianche – secondo la concertazione di Riccardo Chailly. Chailly che di questa Ottava ha un’esperienza invidiabile sempre e oggi insuperata, avendola già condotta anche ad Amsterdam, Lipsia e Lucerna, e avendola appena riportata alla Scala nei tre esauritissimi concerti del 18, 19 e 20 maggio. Proprio poiché conosce la partitura come le sue stesse tasche, egli sa di non dovervi dare una dimostrazione di forza: potrebbe scatenare l’iradiddio e invece sceglie la via delle sfumature timbriche e agogiche, quella del colore pieno ma posato e senza sforzo, quella delle parti che qui e là si fanno soffuse fino a confondersi e sfasarsi con virtuosismo, strenuamente chiedendo con sollecitazioni gestuali la subitanea attuazione di sottigliezze. Tra orchestra, coro e voci bianche della Scala, con l’amichevole aggiunta del coro del Teatro La Fenice di Venezia, gli elementi ammontano a poco meno di quattrocento, e va ripetuto il solito discorso foriero d’orgoglio: gli ottoni delle massime compagini italiane non hanno ormai più molto da invidiare a quelle di Berlino, Dresda e Vienna, mentre nel resto del mondo rimane difficile ascoltare una più cordiale morbidezza e cantabilità sul versante orchestrale, per non parlare della prestanza sonora e del bouquet coloristico recati su quello corale, inimmaginabile fuori dall’Italia. Mahler e l’Ottava se ne giovano, poiché la ristretta tradizione esecutiva di tale composizione si arricchisce della meno metronomica e bombastica tra le maniere di affrontarla, e poiché il peculiare e referenziato materiale d’esecuzione, così plastico, ne apre una lettura finemente critica anziché d’assalto. Quanto alle otto delle voci soliste, conservano pregio e comunità d’intenti, né perdono di varietà vicendevole, a dispetto di ben tre forfaits dell’ultimo momento: quelli dei soprani Marina Rebeka e Krassimira Stoyanova e del baritono Andrè Schuen. Duri ai banchi, invece, ecco di volta in volta: il primo soprano Ricarda Merbeth, con la grinta e lo smalto della veterana wagneriana e straussiana, come Magna peccatrix; il secondo soprano Polina Pastirchak, luminosa e incisiva persin oltre il richiesto a un calibro lirico, come Una poenitentium; il terzo soprano Regula Mühlemann, come lusso inaudito nella brevissima ma esposta e celestiale parte di Mater gloriosa; il primo contralto Wiebke Lehmkuhl, signorilmente introversa, arcana, sommessa e vellutata come Mulier samaritana; il secondo contralto Okka von der Damerau, al contrario possente ed estroversa – si è appena tolta lo sfizio di debuttare quale Brünnhilde nella Walküre al San Carlo di Napoli – come Maria Aegyptiaca; il tenore Klaus Florian Vogt, che risaputamente ha tecnica tutta sua ma anche timbro e porgere fascinosi, come Doctor Marianus; il baritono Michael Volle, viepiù logoro nei mezzi vocali e però inossidabile nello stile e nell’assertività, come Pater ecstaticus; infine il basso Ain Anger, maestoso, forbito e ieratico, senza mai cedere all’ostentazione delle sue abilità, come Pater profundus. Due sole mende tengono sotto scacco questa Ottava di Mahler alla Scala, e sono entrambe di basso ordine patrimoniale-organizzativo anziché artistico. La prima è che anche il massimo teatro d’opera italiano, come pressoché tutti i suoi fratelli, non possiede un organo sensibilmente migliore dello strumento elettrico da studio adatto tuttalpiù all’esercizio domestico o a una chiesetta parrocchiale: il suono, miserello, esce da tre metri cubi scarsi in un angolo del palcoscenico, anziché sublimare di sé tutta la schiera dei musicisti; in Mahler, il problema è grosso e giustificherebbe l’investimento perenne in cambio della rinuncia a un singolo allestimento griffato. La seconda menda è nella nuova camera acustica, sviluppata in altezza e in profondità fin quasi ad arrivare alla Madonnina e in via dell’Orso: non sono queste, tuttavia, le dimensioni utili all’esecuzione proficua e all’audizione ottimale, soprattutto nei casi di musiche con amplissimo organico e della sempre problematica acustica della Scala; per cogliere il colosso dell’insieme servirebbe, al contrario, una disposizione il più possibile orizzontale, che abbracci la sala senza provenire da una sorta di tunnel e che non saturi lo spazio con un suono impoverito e confuso. I mille, altrimenti, parranno cento.