Il giro di boa

di Lorenzo Cannistrà

Il debutto di Beatrice Rana per il Quartetto avviene sotto il segno della Sonata di Liszt, elegantemente preceduta da pagine note di Debussy e Scriabin e meno note di Castelnuovo-Tedesco. Successo prevedibile per la pianista salentina, ormai sempre più celebrata in patria e all’estero

MILANO, 24 ottobre 2023 - Nella vita musicale di una grande città càpitano talvolta dei casi fortunati e insperati. Questa volta l’occasione, ghiotta, è stata quella di ascoltare la Sonata di Liszt a distanza di soli due giorni da due giovani interpreti, tra i più quotati dei nostri tempi: Igor Levit al Teatro alla Scala e Beatrice Rana in Conservatorio, quest’ultima al suo debutto per la Società del Quartetto. Si tratta, lo anticipo, di esecuzioni diversissime, per certi versi agli antipodi, ma che in qualche modo rappresentano gli ultimi importanti approdi del concertismo moderno. Performance in grado, come si suol dire, di alzare l’asticella e di offrire quindi nuovi standard esecutivi estremamente stimolanti.

Casualmente avevo già ascoltato da Beatrice Rana la Sonata di Liszt diversi anni fa in un programma molto simile all’odierno, che si apriva con la Partita n. 2 in do minore BWV 826 di Bach, proseguiva con Pour le piano di Debussy e nella seconda parte prevedeva un brano di Luca Francesconi (Driven by Tears, dedicato proprio a Rana) prima dell’immersione nel capolavoro lisztiano. Tuttavia in quel caso a mio avviso l’impaginazione poteva essere migliorata, con il pezzo di Francesconi che non avrebbe sfigurato qualora eseguito nella prima parte tra Bach e Debussy, lasciando quindi tutto lo spazio della seconda parte, come da tradizione, alla Sonata di Liszt.

Questa volta invece il programma presenta una maggiore fluidità, disegnando dopo l’appassionata Fantasia op. 28 di Scriabin una sapiente linea di continuità tra le atmosfere debussiane del pezzo di Castelnuovo-Tedesco, Cipressi, e La Terrasse des audiences au clair de lune di Debussy (due brani che in alcuni momenti sembrano essere quasi scritti dalla medesima mano). Ma il programma nella prima parte prevede anche un altrettanto sapiente crescendo sempre con Debussy, preparato da Ce qu’a vu le vent d’ouest e completato dalla orgiastica apoteosi de L’isle joyeuse, per poi riservare l’intera seconda parte alla Sonata in si minore. Programma elegante, efficace e ben calibrato, anche se si pone nel solco di una sicura tradizione concertistica.

Con Scriabin Rana ha più volte dimostrato di avere un rapporto confidenziale, benchè per ora limitato al primo periodo compositivo dell’autore, quello degli Studi e Preludi e, appunto, dell’infuocata Fantasia, eseguita con ampio respiro ampio, sinuosità delle frasi e suono tonante, ingredienti perfetti per un eccellente partenza. Segue l’onirica fissità di Cipressi e de La Terrasse, mentre lampi e tuoni da una parte, in Ce qu’a vu le vent, e le lussureggianti armonie de L’isle joyeuse dall’altro, vengono restituiti con un’insolita leggerezza, efficace anche dal punto di vista puramente descrittivo.

Dopo aver ascoltato il Liszt di Levit, informale e visionario al tempo stesso, la lettura di Rana della Sonata mi è sembrata poi tutto sommato ancora ben conforme ad una certa tradizione interpretativa. Quando diversi anni fa ascoltai la pianista salentina in quelle stesse pagine, ebbi modo di apprezzare la sicurezza che questa giovane donna mostrava nell’abilità puramente prestidigitatoria (straordinari per virtuosismo fisico alcuni passaggi nella prima parte della Sonata, quasi ghermiti con presa felina, come raramente si ascolta anche da celebrati virtuosi) e nell’intelligenza musicale profusa in ogni singola nota. Rispetto ad allora l’idea di fondo non è molto cambiata: si nota la caratterizzazione, spesso estrema, tra sezioni lente e momenti virtuosistici, come ad esempio nell’episodio calmato che precede la ripresa in forma di fuga, o, ancora, nella riapparizione di uno dei due temi principali che precedono il Quasi presto. In questo senso Beatrice Rana si dimostra una pianista in qualche modo prudente e cosciente del fatto che, nonostante l’eccezionale bravura, i suoi appena trent’anni non legittimerebbero a priori voli pindarici interpretativi che forse non le sono ancora congeniali. Quello che si avverte oggi in più è peraltro l’esperienza della pianista globetrotter, dotata di grande scioltezza psicologica che si riflette in una capacità comunicativa senz’altro più spiccata rispetto al passato. In quella risalente esecuzione della Sonata sembrava infatti di trovarsi di fronte ad una giovane scienziata che in mezzo ai suoi strumenti e provette distilla un suono bellissimo e inaudito, ma non ancora così coinvolgente dal punto di vista emotivo.

In definitiva il pianismo di Beatrice Rana, rispetto a quello di Levit, si dimostra più performante che visionario. La via che la nostra pianistapercorre per contribuire al progresso dell’interpretazione pianistica è, per adesso, quella che esalta la tradizione fino ad un livello di perfezione e coerenza difficilmente raggiunto in passato. In questo senso la “sua“ Sonata di Liszt (pezzo assai caro nel suo repertorio, e frequentato sin dagli anni di studio) ha senz’altro la perentorietà e la potenza che ci si aspetta da lei, ma rimanendo, come si diceva, nel solco già tracciato dai grandi interpreti che l’hanno preceduta.

Inoltre la pianista salentina in questa occasione è sembrata impercettibilmente a disagio, forse perché non forma fisica perfetta o per altra ignota ragione, il che ha leggermente appannato – proprio in Liszt – lo spaventoso abbrivio con cui affronta solitamente ogni pezzo. Si tratta di una mera impressione che come tale può risultare fallace e che ovviamente non inficia il giudizio complessivo.

Più probabile è invece che Rana sia stata disturbata da un pubblico indisciplinato – mi riferisco a rumori, colpi di tosse, suonerie di cellulari, sempre in momenti in cui il silenzio assoluto sarebbe obbligatorio. Un pubblico, quello milanese, che non ha mancato naturalmente di tributarle la giusta ovazione, ma anche qui irrispettosamente, senza attendere la fine del sacrale momento in cui l’artista si ricompone dopo il dissolversi dell’ultima nota e con un movimento del corpo dà la stura all’applauso liberatorio. Si spera solo che, volata subito dopo a Londra per il suo debutto al Barbican Centre (peraltro nella enorme Hall) la nostra Beatrice abbia avuto maggiori soddisfazioni dal contegno del pubblico anglosassone.

Ma al di là di queste considerazioni, limitate al singolo evento, resta il fatto che il giro di boa dei trent’anni è sempre uno snodo cruciale per un grande artista. Si tratta di un momento di riflessione che conduce di solito alla maturazione dei primi frutti artistici veramente importanti, quelli che consentono all’interprete non solo di essere considerato genericamente originale, ma anche di non perdere l’appuntamento per scrivere la storia dell’interpretazione pianistica. Un appuntamento che – ne siamo sicuri, viste le premesse – Beatrice Rana non mancherà.