Aurea decadenza e romantica modernità

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia presenta un programma che ha al centro il Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 35 di Pëtr Il’ič Čajkovskij, brillantemente eseguito dalla giovane violinista Maria Dueñas. Sul podio c’è Stanislav Kochanovsky, che esegue anche il Capriccio spagnolo in la maggiore op. 34 di Nikolaj Rimskij-Korsakov e la Sinfonia n. 3 in do minore op. 44 di Sergej Prokof’ev.

ROMA, 16 febbraio 2024 – Il programma presentato dal direttore Stanislav Kochanovsky, presenza oramai regolare dei cartelloni dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, è un omaggio alla sua patria, la Russia: si tratta, infatti, di compositori russi tardo-romantici, Čajkovskij e Rimskij-Korsakov, e del loro più celebre ‘figlio spirituale’, Prokof’ev. C’è un sotteso fil rouge, dunque, che attraversa tutte le composizioni: è la temperie di un popolo e di un’epoca, a cavallo fra lo splendore decadente dell’ultima fase dell’impero zarista e la metamorfosi cui la modernità costringerà il gigante russo.

Si inizia con una buona esecuzione del Capriccio Spagnolo di Rimskij-Korsakov. Kochanovsky è un direttore posato, molto attento alla bellezza sonora; in tal senso, è meno propenso a incidere agogicamente in maniera netta, prediligendo una tenuta generale coesa, brillante. Ciò incide, però, su alcuni passaggi del Capriccio, dove forse ci sarebbe voluta una mano più netta – si tenga conto che la partitura di Rimskij-Korsakov è una selva di ritmi cangianti, che talvolta vengono un po’ sacrificati nella bellezza dell’insieme. In tal senso, le Variazioni sono forse il momento meno accattivante della lettura di Kochanovsky, che si lancia, invece, in un’esecuzione brillante dell’Alborada, resa piacevolissima dall’assolo del primo violino (Carlo Maria Parazzoli). La parte meglio riuscita mi pare la seconda, dalla ripresa dell’Alborada fino al Fandango asturiano. Kochanovsky rende con piglio e ricerca dell’effetto la seducente musica gitana della Scena e canto gitano, dove cava colori sensuali dall’orchestra, che si scatena in crescendo variando il tema principale; nel finale, il Fandango, l’orchestra suona magnificamente e il direttore, infine, scioglie maggiormente l’agogica, con il deciso e argentino suono dei violini che sorregge fioriture dei legni e la baraonda degli ottoni. Il pubblico applaude divertito.

Nella seconda parte del primo tempo si giunge al ‘pezzo forte’ della serata, il Concerto per violino di Čajkovskij. Opera funambolica, di un virtuosismo splendido, il Concerto contiene anche passaggi di inusitata dolcezza, mercé l’amore con cui il compositore lo scrisse, affinché fosse eseguito da uno dei suoi allievi più brillanti, Iosif Kotek, nonché uno dei più intensi amori della sua vita. Maria Dueñas è un astro nascente dell’archetto, alla sua prima apparizione nei concerti dell’Accademia. Il pubblico la accoglie con un lungo applauso, presentandosi lei in scena in un abito ampio, espressione della sua eleganza interiore. Ventiduenne, la Dueñas mostra un’insolita maturità artistica, ma si lascia apprezzare, soprattutto, per l’espressività dell’esecuzione. Non può che definirsi intenso, infatti, l’attacco del violino nell’Allegro moderato. L’interprete produce un suono netto, polposo; soprattutto, caratteristica precipua dell’arte dell’andalusa è un vibrato stretto, molto espressivo, con cui la Dueñas disegna tutte le frasi lunghe e sostenute. La parte del violino nel concerto di Čajkovskij, si sa, è tra le più impervie: la Dueñas la legge con grande maturità, arabescando in maniera netta tutti i virtuosismi previsti da Čajkovskij. Se si può fare un’osservazione, forse la violinista è talvolta poco efficace negli staccati, prediligendo un legato leggerissimo: la Dueñas, infatti, mira costantemente all’effetto emotivo, più che alla perfezione tecnica, in questo mostrando una consapevole maturità artistica, che la porta a rendere indimenticabile la sua performance. Tutto ciò trova piena conferma nella cadenza che chiude il I tempo, dove l’interprete disegna volute di suoni puntellate da filati in sovracuto. Il momento tecnicamente migliore per la Dueñas è il II movimento, la Canzonetta; la scrittura puramente lirica di Čajkovskij, infatti, ben si sposa con una tendenza all’espressione emotiva che è connaturata al carattere dell’andalusa: il risultato è magnifico, con frasi lunghe, tenuemente vibrate, con l’interprete che gioca con volumi e colori. L’ultimo movimento è un tripudio di ritmi, contenuto da una direzione, devo dire, abbastanza larga: se Kochanovsky aveva prediletto un accompagnamento non eccessivamente incisivo nei primi due movimenti, lasciando cantare l’orchestra con la solista – con effetti notevoli nel II movimento –, nel III (l’Allegro vivacissimo) l’agogica è sensibilmente allargata, concedendo sì all’interprete di destreggiarsi con agio nei virtuosismi funambolici della parte, ma togliendo un po’ di brillantezza al pezzo. Gli applausi finali sono fragorosi e la Dueñas è chiamata più di una volta sul palco, congedandosi con un bis: Johan Halvorse, La canzone diVeslemøy (un pezzo, ancora, dal carattere molto espressivo, intimistico).

Il secondo tempo è dedicato all’esecuzione della Terza di Prokof’ev. Kochanovsky conferisce al pezzo una lettura pulita ma che non esalta. Il suono orchestrale è ottimo, ma l’agogica è, ancora, comoda e poco incisiva in più di un momento della sinfonia: insomma, Kochanovsky è attento al dato sonoro, alla bellezza dei passaggi, ma forse perde nel senso generale dell’impalcatura ritmica. Del resto, la sinfonia fu composta da Prokof’ev utilizzando musiche scartate dalla sua opera L’Angelo di fuoco, dalle atmosfere gotiche, oniriche, a tratti infernali. Tali contrasti si notano già nel I movimento (Moderato), dove Kochanovsky si lascia apprezzare nella resa di alcuni effetti sonori, ma meno, appunto, per l’incisività ritmica dell’insieme. In tal senso, il momento migliore dell’esecuzione del russo è l’Andante, placidamente pastoso nel suo procedere, ma ricco di venature armoniche sospese, ambigue. Taluni passaggi del III e IV movimento vengono un po’ sacrificati nella loro incisività ritmica, ma non – ripeto – nella loro bellezza sonora: guizzi sonori spettrali, sospesi, con effetti glaciali, ritmi incalzanti, momenti sospesi, tutto ciò si stempera in un finale in cui il suono pare quasi evaporare. Gli applausi sono gentili, ma non sonori come quelli alla fine del primo tempo.