di Francesco Lora
Il Teatro La Fenice porta in scena per la quarta volta il Don Giovanni nello spettacolo firmato da Michieletto. Si compenetra alla perfezione la rivelatoria concertazione di Montanari. Eccellente la compagnia di canto, dominata da Esposito come Leporello di riferimento dei nostri giorni.
VENEZIA, 16 ottobre 2014 – Don Giovanni di Wolfgang Amadé Mozart: la sua lettura teatrale con regìa di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Fabio Barettin non è più una novità; è stata creata nella primavera 2010 per il Teatro La Fenice, e lì è già stata ripresa nell’autunno 2011 e nella primavera 2013. Eppure vi è qualche critico musicale che ancora non la conosceva, e che dopo aver assistito alle recite veneziane degli scorsi 11-19 ottobre viene ad aggiungere ora qualche parola su uno dei più scombussolanti spettacoli oggi alle scene. La penna prende tempo: una recensione dovrebbe essere pubblicata subito all’indomani dello spettacolo, mentre qui si è tenuto qualche giorno in più per rimuginare su quanto visto, per capire qualcosa in aggiunta e riferirne in termini più esatti. Falsa illusione: le immagini e i concetti che rimangono alla mente non si accontentano di giorni, ma accompagneranno per molti anni, come nuovo punto di partenza per pensare intorno al Don Giovanni; il punto d’arrivo, quando v’è di mezzo il titolo più dibattuto del repertorio operistico, chissà dove e quando lo si potrà fissare. Tra le righe una buona notizia è però già scritta: il Don Giovanni di Michieletto non è un intrattenimento del regista con sé stesso, bensì un attento ritorno al testo in quanto tale; quando la drammaturgia è messa in crisi, ciò avviene poiché essa è stata studiata nel profondo invece che fraintesa; e spesso, come non ci si aspetterebbe da un enfant terrible della regìa d’opera, risalta la fedeltà alla lettera testuale, ossia un ripristino laddove la tradizione ha banalizzato, insabbiato, rivestito di nuovo e incoerente significato.
Preme sottolineare aspetti sparsi, talora fondamentali e talaltra accessori, tutti però indizi dell’analisi condotta e degli esiti raggiunti. Alla base dell’intero è la definizione del personaggio di Don Giovanni, tolto al mito romantico che lo fa eroe di libertà individuale presso il prossimo. Si vede invece il libertino che individua a ogni passo una nuova occasione di passatempo e divertimento, al fine di esercitare la propria identità e di non consegnarsi alla noia. Chi ha osservato che l’ultimo giorno di Don Giovanni sia un giorno di sconfitte (nessuna donna gli cede in scena e alla fine gli si spalanca l’inferno), vede qui un uomo senza turbamenti, che piace a tutti per il suo ispirare realizzazione di sé e l’affidabilità in sé, e che ha la sua vittoria nel non essere in fondo legato ad alcunché e nell’aver investito il proprio tempo consumando quello altrui. L’opera è tutta posta sotto il suo punto di vista: dopo una scena di confronto con il Commendatore che pare essere solo un delirio passeggero, nel sestetto finale lo si vede aggirarsi con la sicumera del padrone di casa, a godere dello sfinimento dei sei personaggi che ormai sono psicologicamente legati a lui.
V’è poi il capolavoro di messa a punto della recitazione e quello di pregnanza concettuale della scenografia. Ciascun cantante è qui un attore formato a una consapevolezza di sé e a un dominio dello spazio affatto straordinari nell’odierna pratica del teatro d’opera, che sempre più spesso chiede all’interprete disinvoltura cinematografica senza però sapergli corrispondere chiarezza di metodo e indirizzo. A sua volta lo spazio d’azione è un labirinto di stanze che si ricompone in nuovi ambienti a ogni scena, costringendo i personaggi a una continua peregrinazione (caccia o fuga) da un locale all’altro, tra infinite porte ora apribili con un colpo di maniglia e ora ansiosamente chiuse a chiave, con candele a illuminare fiocamente il cammino e senza alcuna finestra a dar conto dell’ora cui via via sia giunta la giornata del libertino (il suo ultimo giorno o la sua giornata consueta?). Nel gioco di allontanamenti, separazioni e ricongiungimenti della miscela di personaggi, puro genio è ogni scena teatrale ove un carattere sia posto a dialogare con l’altro con in mezzo il diaframma di una porta o di un muro, o dove in due stanze contigue un dialogo a quattro vado a spaccarsi in due paralleli dialoghi a due (ciò che avviene in parte del Quartetto «Non ti fidar, o misera»: una donna indaga una donna, un uomo indaga un uomo).
Alla terza ripresa veneziana, lo spettacolo di Michieletto gode di perfetta compenetrazione con la nuova concertazione musicale di Stefano Montanari. Presenza ormai fissa e di riferimento alla Fenice, il direttore-violinista ostenta qui la sua più autorevole prova lagunare e compie un miracolo nella storia esecutiva recente dell’opera. La ricetta magica è presto detta: studio capillare di ogni dettaglio di fraseggio, timbro e intenzione, indagati con la folle curiosità di chi venga dal repertorio preclassico, ed emendati da una tradizione di luoghi comuni e soluzioni risapute. Ne risulta un Mozart condotto su tempi travolgenti, con movenze insolenti e tra colori abbacinanti; il gioco dinamico è pronto a variare nell’istante, con nettezza e decisione da spirito illuminista; il gesto è quello tagliente ispirato alle orchestre di strumenti originali, ma eredita con gioia le tinte morbide e cordiali della compagine fenicea (dove ogni intervento dei legni esce allo scoperto dall’insieme, mette a nudo la vertiginosa sapienza dell’autore e copre di gloria tecnica lo strumentista). È un Don Giovanni che, rispetto a ogni altra recente lettura data ove un critico possa arrivare con treni e aerei, si impone per ricchezza di informazione raccolta e restituita. Ed è un Don Giovanni senza riposo, che vive nei suoi musicisti e ne attesta la statura artistica egregia.
Poste tante premesse, pare persino scontato riferire di una compagnia di canto preparata fin nella minima inflessione ed entusiasta di anteporre il lavoro di squadra all’esibizione dei pregi individuali. Così, sono tutti vincitori. Vince il giovane Alessio Arduini come Don Giovanni: lo attende una canonica carriera da baritono brillante, con i suoi Belcore e i suoi Riccardo Forth, e prevedere altro sembrerebbe oggi avventato; ma il suo Don Giovanni, vocalmente tutto cantabile e suadente, è formidabile proprio perché nella sua divertita ed egoistica scioltezza non ha alcuna volontà di confessarsi al pubblico: anche rivolgendosi alla platea il libertino prosegue idealmente il dominio psicologico già attuato sui compagni di locandina. Al suo fianco agisce il più strapotente Leporello dei nostri giorni; e siccome ad Alex Esposito non piace la via comoda per esserlo, ecco un personaggio viscido come il Peter Minus di Harry Potter, pronto a cambiare mente e cuore di fronte al pericolo e all’occasione, tutto costruito dentro la musica anche quando il gesto proceda per antifrasi, balbettato nei recitativi con il doppio esito di costruire la leporina pavidità dell’ometto e di far giganteggiare la parola in seno al canto. Un Leporello virtuosistico che diverte i neofiti e meraviglia gli intenditori.
foto Michele Crosera