La lira di Orfeo

di Roberta Pedrotti

 

La voce di Raffaele Pè, l'arpa di Chiara Granata  e la tiorba di Franco Pavan rendono giusto omaggio a un cantante storico ancora poco noto e studiato: Giovanni Gualberto Magni, capostipite degli evirati cantori, creatore di più parti nell'Orfeo di Monteverdi

I percorsi monografici dedicati a mitici interpreti del passato sono una risorsa ampiamente esplorata da epigoni moderni, sovente accostando cavalli di battaglia e creazioni tuttora di repertorio con rarità e riscoperte. I nomi sono per lo più di richiamo, siano quelli di Faustina Bordoni Hasse o di Farinelli, di Maria Malibran o Isabella Colbran, di Adolphe Nourrit o Pauline Viardot. Più raro il caso di un artista scivolato nell'oblio, se non fosse per un unico, non trascurabile, appiglio: l'esser stato fra i primi interpreti dell'Orfeo di Monteverdi. Stiamo parlando di Giovanni Gualberto Magli, ideale capostipite degli evirati cantori sulle scene musicali secentesche, creatore di più ruoli (sicuramente almeno la Musica e Proserpina) nel primo capolavoro della storia del melodramma, non ancora noto e studiato come meriterebbe, a quanto fanno intendere le fonti al momento a disposizione, tracciando un ritratto ancora sfocato, ma decisamente intrigante e suggestivo.

Dedicare un programma da concerto a Magli significa inevitabilmente consacrare uno spazio al suo più celebre cimento, e non può mancare una miniatura monteverdiana che sintetizza l'Orfeo in tre pagine vocali (il prologo della Musica, il congedo della Speranza alle porte degli inferi, la perorazione di Proserpina in favore del ricongiungimento degli sposi nel mondo dei vivi) fra le quali trova posto una trascrizione per tiorba e arpa dell'invocazione “Possente spirto”.

Viene poi la meraviglia e lo schiudersi di uno scrigno di tesori vocali dei primi anni e decenni del XVII secolo. Filo d'Arianna sono il repertorio e i rapporti artistici di Magli nelle sue peregrinazioni dalla Mantova dei Gonzaga, alla natìa Firenze, da Napoli alla Germania. Fra i meandri del labirinto splende la luce del Lamento di Giasone di Sigismondo d'India, pagina affatto particolare non solo perché si tratta di un lamento virile fra tanti più celebri femminili, ma soprattutto perché perché si tratta, rispetto a tante misere abbandonate, del lamento di un colpevole di fronte alle vittime innocenti su cui è caduta la vendetta per i suoi misfatti. La scrittura è profonda, fragrante, ricca e aromatica nella sua netta adesione al dramma. D'India è un gigante del recitar cantando, che anima con un gusto, una sensibilità peculiari, mediterranee senza che mai vi sia un effetto che sovrasti la purezza della parola o che, viceversa, essa sia lasciata nuda in un'intonazione sì scarna da dipendere unicamente dall'estro del cantore per trovare una scintilla di vita. Siamo, con Monteverdi, e con personalità felicemente distinte e spiccate, ai vertici poetici e drammatici del recitar cantando, fra astrazione artistica e verità.

Nella sequenza fiorentina è dato apprezzare il confronto diretto fra le due generazioni dei Caccini: il padre Giulio (1550 ca - 1618) con Amarilli mia bella su versi di Caccini, più levigata nel suo melos affettuoso, e la figlia Francesca (1587 - 1645 ca) con Dispiegate, guance amate, su versi di Ansaldo Cebà, più lieve e guizzante con la mobilità leggiadra dell'alternanza di distici di quadrisillabi in rima baciata e ottonari pure rimanti fra loro. Davvero pregevole è poi l'elaborazione del tema dell'eco di Hor che la nott'ombrosa di Girolamo Montesardo (1580 ca - 1620 ca) cui si affianca, nella sequenza napoletana, un recentissimo omaggio di Alessandro Ciccolini (1974) alla voga petrarchesca che tanto influenza il mondo musicale e poetico a cavallo fra XVI e XVII secolo. Non si accosta a uno dei tanti canzonieri di epigoni più o meno profondi, felici, ispirati, ma va al cuore di uno dei sonetti più celebri e belli, puramente belli, del cantor della bionda avignonese: Solo et pensoso i più deserti campi. Il linguaggio, purissimo, quasi distillato nella sua scrupolosa adesione alla suggestione dei versi, al loro significato, al senso di solitudine cosmica e di fuga impossibile quanto ostinata e spossante dai propri stessi sentimenti, è fratello di quello degli avi. Tuttavia Ciccolini non scimmiotta il madrigale e le forme della monodia poetica di quattro secoli fa: aderisce agli stessi principi, ne omaggia l'ispirazione, e mostra così una affinità intima, sia nelle armonie libere e rarefatte, sia nel la scansione di una musica che è tutt'uno con la poesia. Così, l'omaggio è completo, si avverte la peculiarità dell'autore moderno, ma senza soluzione di continuità rispetto agli antichi, tutti vivi, tutti attuali nella loro arte.

Chiude il programma vocale la curiosa Jutzund kömpt die Nacht herbey, Minnelied del prussiano Johan Nauwach (1595-1630) su versi ancora ingenuamente petrarcheggianti di Martin Opitz. Tributo all'esperienza di Magli nel Brandeburgo e spiraglio su un repertorio poco conosciuto, remota radice della liederistica tedesca, emulazione della monodia italiana innestata sul ceppo della tradizione dei Minnesänger.

Fra le pagine vocali trovano spazio alcuni brani strumentali che vedono protagonisti l'arpa barocca a due ordini di corde di Chiara Granata e la tiorba di Franco Pavan: Durezze e ligature di Jean de Macque (1550 ca – 1614), ardua e scabra, Toccata arpeggiata di Johannes Hieronymus Kapsberger (1580 ca – 1661) e Toccata seconda per l'arpa di Giovanni Trabaci (1575 ca – 1647).

La richiesta, accolta, di un bis corona una serata preziosa e siamo profondamente grati a Raffaele Pè per la dedizione con cui si è fatto promotore e testimone di questo omaggio a Magli e alla civiltà della poesia cantata che rappresenta.

Reso il tributo intellettuale, però, qualche appunto tecnico ci sembra consiglio doveroso per il giovane interprete, che affronta ogni pagina con gusto e passione, aderendo soprattutto al pathos più rarefatto e al lirismo di stampo petrarchesco. Naturalmente il tempo e la naturale maturazione lo aiuteranno a rendere sempre più scaltrito il suo linguaggio poetico, lo scavo del suono e della parola, la differenziazione di affetti e caratteri in tutte le loro sfumature. Alcuni tratti ancora un po' acerbi, e la tecnica ancora in perfezionamento, possono determinare un calo di energia e d'intensità, qualche tratto di stanchezza, per esempio, nel lungo Lamento di Giasone, che richiede all'interprete una maturità e un controllo assoluto che forse è prematuro esigere già dal promettente contraltista lodigiano.

Soprattutto gli attacchi soffrono di un passaggio d'aria fra le corde che, seppur meno pernicioso che in altro repertorio, varrà la pena di risolvere onde assicurare una piena saldezza e timbratura dell'emissione, che per natura e anagrafe appare oggi meno incisiva nel centro e nel grave, ma potrebbe sicuramente guadagnare in smalto e duttilità. Anche l'acuto, penetrante ma un po' tagliente, ci piacerebbe si piegasse a maggior morbidezza e più variegate sfumature. Tutti rilievi che non inficiano la resa di un programma di rara bellezza e interesse da parte di un artista dal quale, pertanto, ci aspettiamo una continua crescita, un affinamento dei mezzi e un approfondimento poetico cui questo repertorio offre stimoli inesauribili e sempre più intriganti.