Ragione regge uomini e dèi

di Luca Fialdini

L’incoronazione di Poppea torna dopo trent’anni al Teatro di Pisa, proposta nella sontuosa ideazione scenica di Pier Luigi Pizzi.

PISA 12 gennaio 2024 – Arriva sulle tavole del Teatro Verdi L’incoronazione di Poppea nell’allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi andato in scena nel giugno 2023 al Ponchielli di Cremona per il Festival Monteverdi. Da una parte la produzione salta a piè pari la questione della titolarità dell’opera, mentre dall’altra compie un gesto del tutto barocco nel mescolare le fonti e nel creare nuove parti strumentali letteralmente alla bisogna, cioè per adattare la partitura all’orchestra a disposizione.

L’annosa questione è legata alla riscoperta di due manoscritti, uno nel 1888 nella Biblioteca Marciana di Venezia (proveniente da un lascito di Francesco Cavalli) e uno nel 1929 nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli. Nessuno dei due esemplari è coevo alla prima rappresentazione del 1642-43 ma sono posteriori di circa un decennio, tra il 1650 e il 1652, e presumibilmente fanno riferimento a una ripresa del titolo ben dopo la scomparsa di Monteverdi avvenuta nel 1643. Il problema è rappresentato dalle non piccole diversità fra i due, perché il manoscritto napoletano ha molta più musica di quello veneziano e omette pure alcuni passi di quest’ultimo, inoltre il materiale comune è spesso presentato con una diversa realizzazione. La verticalità dell’opera è del tutto analoga a quella del Ritorno d’Ulisse in patria, vale a dire che i numeri musicali cantati prevedono le parti di canto con relativo accompagnamento, mentre i numeri strumentali mostrano una scrittura in tre parti – due voci e il basso continuo – nel manoscritto veneziano e in quattro parti in quello napoletano. Questo quadro mostra quali siano i problemi da affrontare e risolvere ogni volta che si metta in scena la Poppea: la realizzazione ex novo dell’accompagnamento per i numeri cantati, come per il già citato Ritorno, e soprattutto la scelta di quali parti includere e quali no. In questo caso il direttore Antonio Greco opta per una via del tutto personale, scegliendo la versione veneziana con le parti strumentali della versione napoletana a quattro parti e a queste ne aggiunge una quinta «per adattare la partitura alla nostra orchestra». Très baroque!

C’è poi l’intricatissima questione della paternità dell’opera stessa che merita almeno un cenno superficiale. La questione non è affatto oziosa se si considera che né lo Scenario della prima rappresentazione, né il manoscritto di Napoli né alcun libretto a stampa noto fino al 1997 riporta il nome di Monteverdi; la data del 1997 ha la sua importanze perché è lì che Paolo Fabbri rinvenne a Udine un libretto manoscritto del tutto compatibile con lo Scenario originale nel cui titolo compare proprio il nome di Monteverdi, inoltre il libretto stesso si conclude con un elogio della protagonista e questo fatto lo colloca cronologicamente in strettissima vicinanza a un ciclo di rappresentazioni. Non è (più) in dubbio la presenza del divin Claudio in questo titolo, resta invece avvolta nel mistero l’effettiva estensione della sua partecipazione perché lunghi studi comparativi hanno ritracciato in altri autori e in altri lavori – persino l’anonima Ciaccona di paradiso, e d’inferno – degli antecedenti di alcune sezioni musicali, anche dell’amato “Pur ti miro”. Una delle ipotesi più condivise suggerisce il procedimento quasi di un pastiche che ha comunque potuto contare sulla “regia” dello stesso Monteverdi, elemento deducibile da alcune intuizioni drammaturgiche tutt’altro che consuetudinarie e in ogni caso tipiche del modus operandi dell'ambito del cremonese (il “Pur ti miro” costituisce la catarsi del primo duetto Nerone/Poppea pieno di dubbi, incertezze e tensioni, stessa soluzione del Ritorno d’Ulisse). Ci sono auto-prestiti, prestiti da altri autori e probabilmente anche contributi di altri autori, come lo stesso Cavalli che ha curato la compilazione del manoscritto veneziano secondo il suo gusto, ma in fin dei conti non ha importanza chi abbia materialmente scritto ogni nota perché tutto è degno del più puro Monteverdi.

È questa l’aria che si respira alla prima levata di sipario, con l’affascinante scena realizzata da Pier Luigi Pizzi che, come di consueto, firma anche regia, costumi e luci. Un contesto del tutto ideale, oltre i concetti di tempo e spazio, eccellente per una vicenda di antichi imperatori e numi celesti; la compresenza di elementi architettonici classici immersi in un contesto irreale con sfondo neutro e alcune forme mostrate decontestualizzate accostano l’estetica della scena al surrealismo (dove l’oro non è il barocco – perché oro e barocco non sono sinonimi – ma l’eccesso daliniano) se non addirittura ai lavori del Botticelli post crisi savonaroliana. Una menzione particolare la merita l’uso dinamico delle luci che si propongono come elemento attivo della scena e in più di un’occasione concorrono in modo interessante alla drammaturgia.

Meno forte e meno decisa la mano della regia, che impone gestualità plastiche in una serata di tre ore e mezza in un titolo in cui scenicamente non accade nulla, essendo un esempio di quel che si usa definire “teatro interiore”. C’è una lavorazione molto delicata del gesto scenico ma si sente la necessità di avere qualcosa di più: l’eleganza e la pulizia estetica non è incompatibile con un’impronta registica più netta (La Calisto di McVicar ne sa qualcosa). Si apprezza in particolare la gestione di sensualità e sessualità, due temi di grande importanza nell’economia del libretto, che vengono rimarcati in modo evidente ma senza alcun compiacimento voyeuristico, trattati con la consueta levità; viene un può a mancare l’altro grande tema, se non maggior almeno paritario rispetto agli altri due, che è quello del potere. Ci sono degli accenni significativi – uno su tutti la suicida Ottavia che viene spinta nella fossa da Nerone subito dopo averle tolto la corona – ma non completamente sufficienti e in alcuni casi contraddittori: nel finale dell’opera, mentre giace con Nerone su un triclinio, è Poppea stessa a togliersi la corona dal capo. Va bene la citazione visiva che si viene a creare, ma in un’opera sul potere non è pensabile che il personaggio che più di tutti ha tramato e lavorato per conquistare la corona se la tolga dopo averla appena indossata. Si perde in parte anche l’amarezza di un titolo in cui, nella massima semplicità, i cattivi trionfano e grazie al meraviglioso duetto d’amore noi ne siamo pure contenti.

Molto buona la direzione di Antonio Greco che si dimostra fin dal prologo aderentissima sì allo stile monteverdiano ma soprattutto alla parola e la scelta dei tempi va nella direzione di restituire all’ascolto un testo il più chiaro possibile. Forse in qualche occasione si poteva osare con un paio di tacche di metronomo in più, ma il risultato complessivo è splendido; inoltre è evidente anche come la direzione di Greco sia un tutt’uno con l’ideazione scenica di Pizzi, costituendo con questa un flusso drammaturgico unitario Unico neo il finale dell’opera, in cui alla ripetizione del «Pur ti miro» iniziale si sceglie un tempo straordinariamente lento: più che di barocco sa di romanticismo ruspante (1837 circa) e con quanto eseguito nelle tre ore e venticinque minuti prima non ha nulla a che fare. Nota di demerito per il sipario a ghigliottina che in questo pianissimo esteso cala rumorosamente.

Ottima l’Orchestra Monteverdi Festival – Cremona Antiqua che propone un’intonazione impeccabile unita a una bella compattezza in un ensemble che vanta una riconoscibile nitidezza delle singole linee anche nei momenti di maggior densità. Si apprezza anche la ricerca coloristica, come gli impasti non scontati tra gli strumenti a fiato, che viene portata avanti con il senno di quel che accade in scena.

Cast interessante ma con disparità sensibili. Bene – e in particolare nei momenti brillanti a loro affidati – Giorgia Sorichetti (Pallade/Virtù/Damigella) e Paola Valentina Molinari (Amore/Valletto), corretti Francesca Boncompagni (Fortuna), Danilo Pastore (Nutrice/I familiare), Mauro Borgioni (che si accolla la bellezza di quattro ruoli: Mercurio/tribuno/littore/III familiare) e Luca Cervoni (Liberto/II soldato/console); il Lucano di Luigi Morassi (anche I soldato e II familiare) rappresenta una nota di pregio.

Adeguati ma vocalmente meno appariscenti la Drusilla di Chiara Nicastro e l’Ottone di Enrico Torre.

Candida Guida nei panni di Arnalta fa sfoggio di una solida tecnica, in particolare di un bell’uso dei pianissimi, e di una riuscita caratterizzazione ma la resa voacle non risulta del tutto convincente, in particolare in “Oblivion soave”.

Josè Maria Lo Monaco è un’Ottavia di rilievo, dolente e nobile, con una cura particolare per l’articolazione e per il rapporto tra parola e musica che raggiunge vette elevate nel celebre “Addio Roma”.

Molto convincente Federico Domenico Eraldo Sacchi, un Seneca dal timbro davvero scuro, possente, un ottimo ritratto del vecchio filosofo ormai lontano dagli interessi mondani.

Federico Fiorio è un Nerone che domina la scena. Volitivo, del tutto avvolto nelle spire di senso e potere, propone una vocalità agile dalle molte preziosità che guadagna facilmente la regione acuta; coscienziose le agilità contraddistinte da una linea di canto molto pulita.

Poppea è il suo contraltare perfetto, anche pensando al colore timbrico, dato che quello di Roberta Mameli è leggermente più scuro di quello dell’augusto consorte: l’effetto è singolare, ma molto adeguato al titolo. La Poppea di Mameli è anche l’unica che sul palco possa tenere testa a Nerone e lo fa con una grazia disarmante, una sensualità gentile e dalla quale è bello lasciarsi avvolgere, complice l’uso squisito delle mezze voci.