Il secondo dittico del Trittico

 di Stefano Ceccarelli

Il Costanzi porta in scena due opere in un unico atto, Gianni Schicchi di Giacomo Puccini e L’heure espagnole di Maurice Ravel; si tratta del secondo capitolo del progetto Trittico Ricomposto, che, quest’anno, cade proprio nel centenario dalla morte di Puccini. La direzione è affidata a Michele Mariotti, la regia e le scene a Ersan Mondtag.

ROMA, 13 febbraio 2024 – Secondo appuntamento del progetto Trittico Ricomposto, la cui idea (a firma di Michele Mariotti) è quella di ‘scomporre’ il Trittico di Giacomo Puccini e di legare le tre opere con altri capolavori del genere, il ‘dittico’ ricreato nel 2024, anno della celebrazione del centenario dalla morte del compositore, è un’accoppiata già esperita: Gianni Schicchi di Puccini assieme a L’heure espagnole di Maurice Ravel. Lo scorso anno, il progetto ha esordito con la riuscita messa in scena de Il tabarro pucciniano assieme a Il castello del principe Barbablù si Bartók (leggi la recensione).

424773616 18400600570071832 4880165038594579541 nLa regia del presente spettacolo è affidata a Ersan Mondtag, che ne cura anche le scene. L’idea visiva del Gianni Schicchi è certamente convincente e ben realizzata: un interno di un palazzo in rovina, invaso da piante rampicanti, dove troneggia un mascherone raffigurante un animale fantastico (di quelli che si possono ammirare, per esempio, a Bomarzo) che funge, scenicamente, anche come una delle porte di ingresso alla casa. V’è, poi, anche un ingresso laterale, sul quale si staglia un grande orologio. Tanto è apprezzabile il dato scenico dello Schicchi, quanto, per alcuni versi, è poco curata la natura dei singoli personaggi: i cantanti, infatti, in alcune scene sembrano sfruttare poco le potenzialità di un libretto poliedrico tal è quello dello Schicchi e alcune scene comiche hanno, semplicemente, un sapore un po’ ingessato. Ciò detto, complessivamente l’opera scorre, ma, appunto, si nota un certo grigiore nelle trovate registiche. Azzeccata l’idea dei costumi: tutti sgargianti, giocanti su colori netti, forti, che contrastano con il fondale e tendono a caratterizzare i Donati come una famiglia aristocratica eccentrica e decadente – lode, dunque, al lavoro di Johanna Stenzel, che ha creato costumi indimenticabili, come quello di Betto di Signa (androgino e fluido) o come i costumi femminili, un autentico tripudio di colori. Proprio come la regia, anche la direzione di Michele Mariotti non convince appieno. Il problema mi è sembrato nel fraseggio e nel ritmo generale dell’opera, nel suo respiro complessivo; la lettura di Mariotti risulta un po’ anemica, mancando di sottolineare, con nettezza, le scene ed il ritmo intrinseco delle stesse. Il gesto è, sicuramente, nobile, buona la resa sonora ed il lavoro con l’orchestra; il problema risiede proprio nel dare carne viva al libretto di Forzano, nell’aiutare le voci nel compito non semplice di recitar cantando, nel vero senso della parola, giacché gli assoli si contano sulla punta delle dita. Di conseguenza, la maggior parte del cast, pur facendo complessivamente bene, non brilla nella rispettiva parte. La Zita di Sonia Ganassi è buona, ma non eccelsa, notandosi poco smalto nella pur bella voce brunita e piena del mezzosoprano. Del pari, il Rinuccio di Giovanni Sala si apprezza essenzialmente per qualche squillante acuto (poco ricco, peraltro, di armonici), ma la voce ha qualche difficoltà di volume nella tessitura mediana. Il suo «Firenze è come un albero fiorito» non riesce ad essere né incisivo né brillante nella linea di canto, ma si lascia apprezzare, appunto, più per qualche bella nota che nel suo complesso. Il Simone di Nicola Ulivieri è apprezzabile, invece, per la linea di canto vocale, incisiva e ben udibile – oltre che per un fraseggio efficace. Ya-Chung Huan si fa ben sentire in Gherardo, ma di lui parleremo meglio affrontando L’heure espagnole. Gli altri comprimari dello Schicchi fanno abbastanza bene: Valentina Gargano (Nella), Leonardo Graziani (Gherardino), Roberto Accurso (Betto di Signa), Daniele Terenzi (Marco), Ekaterine Buachidze (La Ciesca). I due interpreti migliori in scena sono, a mio avviso, Vuvu Mpofu (Lauretta) e Carlo Lepore (Gianni Schicchi). La Mpofu è dotata di una voce abbastanza voluminosa, argentina e vibrata, dunque adatta a Lauretta. A livello tecnico, però, è un po’ dura nella parte acuta, risultando lievemente metallica: lo si è notato nella celebre aria «O mio babbino caro» (dove, peraltro, c’è qualche problema nel coordinamento buca/cantante), che, pur scorrendo mellifluo, mostra durezza nella sezione acuta, come pure nella verticalizzazione della linea di canto. Carlo Lepore si staglia sopra tutti nel suo Gianni Schicchi, vocalmente sontuoso: la voce è chiara, potente, il fraseggio ben porto, concorrendo a creare un carattere credibile, come si è visto nella scena del finto testamento, nella quale Lepore simula la voce di Buoso Donati, giocando con i colori e le sfumature del suo mezzo vocale. Insomma, l’interprete riesce a scontornare un Gianni Schicchi divertente e spregiudicato, assai applaudito dal pubblico.

424932995 18400600618071832 7840722680349866475 nIl secondo quadro del dittico è L’heure espagnole. Intelligentemente, Mondtag lascia la struttura della scenografia intatta, per modificarne solo alcuni particolari. La scalinata che troneggia nella parte sinistra della scena (con il mascherone in cima) diventa il collegamento fra la bottega dell’orologiaio e la sua casa; la scena viene invasa da orologi a pendolo. L’uso del proiettore, in questo secondo quadro, è forse la cosa più particolare e disorientante dell’apparato scenico; vi si proietta, infatti, ogni sorta di immagini: ufo che si schiantano, eruzioni vulcaniche, immagini astratte, dal sapore surrealista. L’idea di Mondtag è un po’ quella di immergere lo spettatore, evidentemente, in un universo senza tempo, in un mondo dell’assurdo: «il mondo prima e dopo l’apocalisse. Finito il mondo, ci si accorge che gli uomini continuano a vivere degli stessi conflitti, come se niente fosse. Vivono da qualche parte nell’universo, facendo le stesse cose. È una sorta di idea positiva dell’uomo, che vivrà sempre con il desiderio del sesso e dell’altro» (queste le parole del regista dall’intervista contenuta nel programma di sala). A livello registico, L’heure espagnole appare più riuscito: i personaggi sono di meno e l’opera non presenta momenti particolarmente complessi, incardinandosi essenzialmente nell’incessante movimento di Ramiro nel portare su e giù gli orologi a pendolo con dentro i due amanti di Conceptión e nei tentativi di questi di non farsi cogliere in flagrante adulterio. A differenza del Gianni Schicchi, Michele Mariotti mi pare percepire con più nettezza la partitura de L’heure, con la quale Ravel crea un raffinato gioco di screziature sonore, dal gusto esotico e, ovviamente, marcatamente iberico, scandita inesorabilmente dal ticchettio degli orologi, che a ondate regolari ritorna in partitura (del resto, il rapporto fra eros e scorrere del tempo è tema quanto mai topico). Mariotti riesce a rendere tutto questo con il tocco raffinato e gentile che ne contraddistingue, sempre, ogni esecuzione. Anche il cast vocale risulta più omogeneo. Squillante ed argentino è il Torquemada di Ya-Chung Huang, il cui smalto vocale qui si può ammirare assai di più che non nel Gherardo dello Schicchi. Karine Deshayes, dotata di una voce ben educata, tornita, brunita e pastosa, riesce bene nella sensuale Conceptión, di cui scontorna i colori vocali e regala una buona resa scenica. Giovanni Sala, più che in Rinuccio, rende meglio nell’eterea scrittura di Gonzalve, dove può muoversi senza troppo sforzo nella tessitura alta, appoggiando il suono. Nicola Ulivieri fa bene anche in Don Iñigo Gomez, di cui coglie bene il carattere tronfio, accentuato dal generoso volume della sua voce. Indimenticabile, su tutti, il Ramiro di Markus Werba, non solo per una interpretazione vocale smagliante, grazie ad una voce scura, sensuale, sempre centrata, ma pure per un’accattivante resa scenica, fino alla capitolazione erotica alla fine dell’opera. Il pubblico applaude, mostrando di aver gradito questo dittico.