Butterfly, l'essenziale

di Francesco Bertini

Curatissima, nella sua essenzialità densa di dettagli, la ripresa padovana, realizzata da Paolo Giani, dell'allestimento di Madama Butterfly firmato da Beni Montresor per Genova. Nel cast Andrea Rost, Luciano Ganci e Giorgio Caoduro, con la concertazione problematica di Tiziano Severini.

PADOVA, 24 ottobre 2014 - Giacomo Puccini colse l’essenza della propria epoca con la decisione di musicare un soggetto dall’ambientazione esotica, più precisamente giapponese, in ossequio al mutato gusto del pubblico che dalle turcherie si era spostato agli orientalismi. Il soggetto, tratto dal dramma Madame Butterfly di David Belasco, non ottenne un immediato successo, come testimonia la caduta clamorosa della prima esecuzione alla Scala, nel 1904. Le sorti dell’opera, rivista accuratamente dall’autore, si ribaltarono solo pochi mesi dopo al Teatro Grande di Brescia dove le accoglienze furono trionfali.

Nel giro di un mese il Teatro Verdi di Padova ha ospitato l’inaugurazione della stagione lirica cittadina con Il barbiere di Siviglia, quindi il Concorso internazionale di canto “Iris Adami Corradetti” e ora Madama Butterfly.

Il giovane Paolo Giani ha ripreso l’allestimento curato per intero da Beni Montresor per la stagione 1995 – 1996 del Teatro Carlo Felice di Genova. La scena è spoglia, nell’ambizione di togliere gli inutili orpelli solitamente abbinati alle culture dell’Est. Lo stesso Montresor riferì il suo disappunto per l’ambientazione fiabesca, tipica dell’immaginario oleografico europeo, e per gli atteggiamenti stereotipati con i quali spesso vengono caratterizzati gli asiatici. Lo spazio svuotato quasi del tutto, a parte scarna e poco invasiva oggettistica, è suddiviso in due piani: ad un’ampia zona che si prolunga fino al proscenio, si contrappone una parte rialzata, addossata al fondale, sulla quale, durante il primo atto, poggia la “casetta”. Il piccolo edificio poi scompare poiché tutta la superficie ne ricrea l’interno. Le pareti laterali, a specchio, amplificano le dimensioni e reiterano l’onnipresente bianco, macchiato dai costumi rossi e neri. Fondamentali, in un allestimento essenziale, sono le luci alle quali Giani riserva accurata attenzione: i colori sottolineano costantemente le pieghe prese dalla vicenda e ne danno una forte interpretazione emotiva. Il curatore dello spettacolo evidenzia le disparità tra mondo americano e giapponese, con una recitazione impacciata da un lato e sobria, quasi sofferente, dall’altro.

Sulle mancanze musicali pesa quasi totalmente la direzione di Tiziano Severini. È evidente l’idea di fondo che muove il concertatore romano ma l’incapacità di trasmetterla si abbatte sulla resa dell’intera opera. Severini propende per la dilatazione eccessiva dei tempi con dinamiche disequilibrate, o troppo forti o troppo esili. Quel che si nota, purtroppo, è l’incapacità di creare un tutt’uno tra buca e palcoscenico dove artisti e coro sono spesso abbandonati a loro stessi, mentre il direttore è intento a cogliere l’aspetto sinfonico della partitura. Si segnala però la maggior cura con cui, in quest’occasione, l’Orchestra di Padova e del Veneto ha affrontato il proprio compito. Il Coro Città di Padova, sempre preparato da Dino Zambello, conferma alcune problematiche d’intonazione e imprecisioni, specie per quanto attiene gli attacchi, ma pare più efficace del solito nell’esecuzione della partitura pucciniana.

Il ruolo protagonistico compete a Andrea Rost. Il soprano ungherese ha debuttato Cio-Cio-San lo scorso anno e da allora ha vestito sporadicamente i panni della geisha. Non le manca il temperamento, convogliato in una prestazione attoriale di un certo rilievo artistico. I mezzi vocali sono forse un po’ esigui ma non inefficaci: a fronte di alcune tensioni in zona acuta e del fraseggio a tratti scontato, vi è però il registro centrale corposo accostato ad una spiccata personalità. Pur non essendo suo repertorio d’elezione, il lavoro risulta valido. Il collega Luciano Ganci, Pinkerton, basa la propria interpretazione sulla bellezza di uno strumento dalle preziose screziature. La natura tuttavia è insufficiente a mascherare talune cadute nell’intonazione e una certa genericità espressiva, acuita dalla disomogeneità che manifesta una non piena padronanza tecnica. Lo Sharpless di Giorgio Caoduro, costretto ad utilizzare un bastone per una frattura al piede, si distingue per efficacia scenica, fraseggio sensibile e bel timbro. Si conferma, dal Rigoletto padovano dello scorso anno, l’energia interpretativa di Daniela Innamorati, Suzuky, la quale tende però a gonfiare il registro centrale, indugiando in emissioni spesso discutibili. Max René Cosotti sfodera il proprio bagaglio artistico per dar vita ad un Goro capace di reggere efficacemente la frequente presenza in scena, come voluto dalla regia, che mette in luce le caratteristiche peculiari del sordido personaggio. Il giovane baritono William Corrò è un valido, seppur perfettibile, Principe Yamadori. Al contrario, le prove di Sabrina Vianello, Kate Pinkerton, Abramo Rosalen, Zio Bonzo, e Francesco Milanese, Il commissario imperiale, non si distinguono per correttezza e valore. Completano onorevolmente il cast vocale Gianluca Zoccatelli, Zio Yakusidè, Valentina Babusci, Zia di Butterfly, Simonetta Baldin, Cugina, Silvana Benetti, Madre. Il piccolo Sebastiano Corrò fa sorridere il pubblico per la spigliatezza mostrata nel vestire i panni di Dolore, figlio di Butterfly.

Applausi per tutti, al termine della recita, con calorose accoglienze per Rost e Ganci.

foto Giuliano Ghiraldini