Paesaggi dell'anima

di Alberto Ponti

Un caloroso entusiasmo accoglie il debutto con l'OSN Rai della violinista ventitreenne Maria Dueñas, in una pagina capace di valorizzarne a 360 gradi il talento quale la Symphonie espagnole di Lalo

TORINO, 10 aprile 2025 - Il repertorio sinfonico francese nella seconda metà dell'Ottocento non compare, almeno in Italia, quasi mai nei programmi concertistici. Si passa dai tardi capolavori di Berlioz, che per la sola orchestra cessò di scrivere prima della metà del secolo dedicandosi poi soprattutto alla musica teatrale e corale, direttamente a Debussy e Ravel, che sconfinano nel Novecento più che inoltrato. In mezzo c'è una sorta di buco nero di alcuni decenni, riempito talvolta da una manciata di composizioni di Saint-Saëns, Franck e Bizet. Eppure i cugini d'oltralpe hanno espresso nel periodo autori eccellenti e spesso geniali, del calibro di Fauré, Chabrier, Chausson, Magnard, per non citarne che alcuni, tralasciando gli operisti come Massenet e Ambroise Thomas.

Édouard Lalo (1823-1892) appartiene alla schiera di coloro che ebbero una produzione in tutti i generi, dal teatro alla musica camera, nonostante un catalogo non enorme. La stessa Symphonie espagnole in re minore per violino e orchestra op. 21 (1874), di gran lunga il suo lavoro più celebre, è sporadicamente frequentata, tanto che per l'ultima apparizione Rai a Torino bisogna tornare indietro di quasi vent'anni, quando vi si cimentarono per l'occasione Vadim Repin e il compianto Rafael Frühbeck de Burgos.

Un motivo del raro ascolto dal vivo del pezzo è la necessità di un solista di prim'ordine, accoppiato a un grande direttore, requisiti che nella recentissima serata sono stati soddisfatti dalla presenza della star internazionale del violino Maria Dueñas, classe 2002 ma già artista di punta di una casa come Deutsche Grammophon, e da Andrés Orozco-Estrada. Una spagnola e un colombiano, dunque, per un brano ispirato al folclore iberico che, sulla carta, non dovrebbe presentare segreti per entrambi. Il risultato non è scontato quanto si potrebbe pensare, e verrebbe da definirlo non meno nordico che mediterraneo. Il suono della Dueñas nel primo movimento è scuro, a tratti graffiante, al limite del terreo, anche se dotato di di una intrinseca morbidezza e di una splendida intonazione che ne smorzano i caratteri più aspri, e ottiene i migliori esiti in termini di resa non tanto nell'esposizione del tema principale, memorabile incipit perentorio e tagliente di sapore affatto beethoveniano, quanto nella sua evoluzione cantabile e nella seconda idea, basata sul medesimo schema tre contro due, assecondata da una direzione che riesce nel giro di mezza battuta a tramutare l'orchestra da discreta campitura a vero e proprio protagonista, con Lalo che si inserisce appieno, con una scrittura di alto virtuosismo curata in ogni dettaglio, nella grande tradizione degli strumentatori del suo paese. Una maggior leggerezza informa lo spirito degli esecutori nei successivi quattro tempi dell'opera, originale e singolare ibrido tra sinfonia e concerto tradizionale, pur non avendo fino in fondo le caratteristiche strutturali né dell'una né dell'altro. In particolare, Maria Dueñas conquista e seduce la sala, al di là dello sfoggio di scioltezza e tecnica impeccabile del Rondo conclusivo, nel leggero e sognante Scherzando, nel capriccioso Intermezzo e nell'estatico Andante con le molteplici risorse di uno stile e di una personalità che le consentono di andare a segno sfruttando, nel solco di una naturale raffinatezza e distinzione nel gusto, un istintivo controllo dinamico, evidente anche nella trascrizione del Valse triste di Oskar Nedbal proposta come encore e tutta giocata su differenti gradazioni di piano e pianissimo, esibendo una lussureggiante varietà timbrica che ha pochi eguali nel panorama del violinismo contemporaneo.

Il vivo e caloroso successo che l'auditorium decreta alla giovane solista è bissato, a fine serata, dall'ovazione nei confronti di Orozco-Estrada, autore di un'ottima prova in un caposaldo della letteratura sinfonica romantica quale la Sinfonia n. 3 in la minore op. 56 Scozzese, composta da Felix Mendelssohn-Bartholdy nel 1829 ma rielaborata nella forma definitiva nel 1842. L'interpretazione del direttore principale dell'Orchestra Sinfonica Nazionale si caratterizza per scavo espressivo, profondità ed equilibrio in una partitura che guarda avanti rispetto all'epoca in cui fu concepita, precorrendo peculiarità di linguaggio che diverranno correnti solo nelle generazioni successive, a partire dalla forma ciclica con il ritorno dell'idea iniziale dell'introduzione al termine del primo tempo e poi, in maniera modificata, nella coda finale. Un procedimento meno insistito ma altrettanto raffinato di quello adottato da Berlioz, riconosciuto inventore del metodo, nella Symphonie fantastique che sarebbe addirittura posteriore di un anno (1830) alla prima stesura della Scozzese. La lettura di Orozco-Estrada è, nel rispetto del dettato compositivo, vibrante e appassionata con numerosi passaggi di forte impatto emozionale, accentuati anche dalla scelta, in apparente controsenso, di schierare una compagine di archi leggermente più folta (con sei contrabbassi invece di quattro) che nell'opera di Lalo.

Il rilievo delle frasi dei violoncelli, i guizzi dei clarinetti, le note ribattute dei corni, gli squilli guerreschi delle trombe si amalgamano quali momenti memorabili di un discorso che, sotto la bacchetta del maestro, grazie alla spinta di un fraseggio vivo, teso e incalzante pure nei momenti di aperta meditazione, non incontra momenti di stanca né cede un istante in intensità poetica, evocando lo spirito dei paesaggi nordici che tanto colpirono l'immaginazione di Mendelssohn.

Pubblico non numeroso ma entusiasta per un concerto in grado di mettere a nudo l'anima di due pagine assai diverse, accomunate solo dal fatto di trarre ispirazione da terre ammantate di un fascino all'epoca 'esotico', ma in realtà, ça va sans dire, splendidi esempi di musica assoluta.

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