Crocevia Novecento
Anche la stagione dell’Unione Musicale volge al termine e per l’occasione congeda il pubblico torinese con un concerto che vede protagonisti il violoncello di Nicolas Altstaedt e il pianoforte di Alexander Lonquich: attraverso pagine di Barber, Boulanger, Britten, Debussy e Fauré, il duo traccia un interessante itinerario nella letteratura musicale del primo Novecento.
Torino, 21 maggio 2025 – Il primo Novecento è stato un tempo sospeso tra l’eredità romantica e il vento delle nuove idee, un’epoca in cui la musica cercava nuove vie per esprimere le inquietudini e le speranze di un mondo in rapida trasformazione. In questo crocevia, i compositori cercavano di conciliare l’eredità romantica con le esigenze di un linguaggio più moderno, spesso segnato da introspezione, ambiguità e sperimentazione, sia timbrica, ritmica o armonica. Era un momento in cui le forme classiche venivano rilette e riscritte, a volte in modo accademico, altre più personale; un periodo in cui l’intimità della musica da camera offriva terreno fertile per esplorazioni sottili e profonde, per testare sul campo la capacità di proiettare nel testo le nuove urgenze comunicative che andavano via via sedimentandosi.
Questo fermento creativo è il filo conduttore del concerto di Nicolas Altstaedt e Alexander Lonquich per l’Unione Musicale, il concerto conclusivo della stagione. Il programma attraversa alcune tappe emblematiche del repertorio cameristico tra le due guerre. Le tensioni liriche e drammatiche di Samuel Barber, la scrittura delicata e crepuscolare di Nadia Boulanger, l’istrionismo di Claude Debussy, il linguaggio memorioso di Gabriel Fauré, fino ai giochi brillanti e stranianti di Benjamin Britten: ogni pagina riflette una diversa declinazione del dialogo tra tradizione e modernità, tra rigore formale ed esigenza espressiva.
Non si tratta, è vero, di un itinerario di immediatissima presa, e pur nella rassicurante forma della sonata che nell’impaginato ritorna quattro volte su cinque, il rischio di perdersi nelle pieghe di un linguaggio per certi versi più estroso, non sempre segnato da una linea melodica lampante che possa lasciare briciole lungo il sentiero, si presenta qui e là nel corso della serata. La sonata in do minore per violoncello e pianoforte di Samuel Barber, ad esempio, spiazza con quello scherzo brioso che squarcia il canto elegiaco e vibrante dell’Adagio centrale, posto lì sulla partitura prima che una fitta rete di figurazioni ritmiche elettrizzi l’Allegro appassionato conclusivo dall’atmosfera quasi rachmaninoviana. Sortisce un simile effetto la sonata per violoncello e pianoforte di Debussy, teatralissima e moderna nella scrittura, geniale nelle figurazioni della Sérénade che allude al pianto, al sorrido, all’aspetto umorale e lunatico di Pierrot. I Trois Pièces di Boulanger hanno invece una cantabilità più affabile, ma è intessuta in una trama più d’avanguardia – specie l’ultimo, Vite et nerveusement rythmé –. Solo la sonata no.2 in sol minore op. 117 di Fauré, in questa serata, manifesta il desiderio di restare ancorata alle radici romantiche: lo testimoniano il fluire ininterrotto e avvolgente degli arpeggi pianistici che sorreggono il lirismo pervasivo del primo Allegro, la tensione espressiva dell’Andante, costruito con rigore formale, e le invenzioni capricciose e vivaci che animano il movimento conclusivo. Ma la parentesi nostalgica dura poco perché, subito dopo, quella in do maggiore op. 65 di Britten, scritta per Rostropovič, balza in avanti di decenni: coi suoi cinque brevi movimenti (Dialogo, Pizzicato, Elegia, Marcia, Moto perpetuo), l’opera si muove tra umorismo e drammaticità, rigore e gioco, con una scrittura essenziale ma sorprendentemente inventiva nei colori e negli effetti.
Muoversi in un programma così variopinto e raffinato non è facile, eppure Altstaedt e Lonquich riescono a onorare le peculiarità di ciascun episodio con contezza di mezzi e proprietà di linguaggio. Ascoltato in quest’occasione per la prima volta, Altstaedt non dà l’impressione di essere un artista dallo stile impettito e pettinato. E pettinato, in effetti, non lo è troppo nemmeno letteralmente. Il fraseggio istintivo, il gesto fisico sempre mobilissimo, quasi teatrale, che però sa assicurare ovunque un suono pulito, tornito e ben levigato, lasciano fin dalle prime battute l’impronta dell’artista originale e carismatico, particolarmente a proprio agio là dove la narrazione musicale si allontana dai binari convenzionali. Lonquich, invece, che abbiamo sempre incontrato nel repertorio classico – quindici giorni prima, al Lingotto, con Beethoven –, dimostra qui estrema confidenza anche con lavori che non richiedono solo tecnicismi in punta di dita, sfoggiando una nutrita varietà nel tocco, nell’accento e nelle sonorità tali da far calzare il suo pianismo, di volta in volta, come un guanto per ciascun brano: duttile in Debussy, cesellato e malinconico in Fauré, nervoso e tagliente in Britten, sempre in dialogo pieno con il violoncello, senza mai imporsi ma nemmeno ritirarsi. E Insieme traduco il concerto in un’esperienza che stuzzica la mente senza mai trascurare, né deludere, la pancia.
Il Rondò dalla sonata in sol minore per violoncello e pianoforte op. 5 n. 2 di Beethoven e la ripetizione della Marcia dalla sonata di Britten chiudono in bellezza una serata calorosamente festeggiata, l’ultima di una stagione che anche quest’anno ha regalato moltissime emozioni.
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